Per ridurre il rischio idrogeologico nel Centro-Nord ci vorrebbe almeno un miliardo e mezzo di euro. Per l’Anbi, Associazione nazionale dei consorzi di bonifica, tanto dovrebbero spendere gli enti competenti (Stato e Regioni) per mitigare il rischio frane o esondazioni che nell’area riguarda più di 900 comuni (il 95% del totale) pari a una superficie totale di quasi 8mila kmq. Si tratta di una somma che è più del doppio degli stanziamenti statali del 2010, pari a 650 milioni per tutto il Paese. Una cifra neanche paragonabile a quanto speso effettivamente negli ultimi tre anni in questo settore dalle quattro Regioni: 50 milioni di euro, neppure il 5% della cifra necessaria. Le 921 proposte di messa in sicurezza del territorio che gli enti territoriali della bonifica propongono per il territorio di 917 comuni puntano a potenziare gli impianti di smaltimento delle acque piovane soprattutto nelle aree depresse, o comunque di pianura, come nell’area nord della Bassa Bolognese in corrispondenza dei comuni di Medicina. Il potenziamento degli impianti idrovori, l’adeguamento di fossi e canali, il rinforzo degli argini e la realizzazione di casse di laminazione o di espansione, capaci cioè di accogliere l’eccesso di acqua determinato dalle piogge, sono in programma anche nei piani di intervento dei consorzi di bonifica toscani. Che prevedono, tra l’altro, il consolidamento delle frane e la riduzione dell’effetto erosione sulle sponde del fiume Albenga, oltre che la realizzazione di casse d’espansione a difesa dell’abitato di Albinia (Gr), della Ss Aurelia e della ferrovia RomaPisa nei comuni di Manciano e Scansano, sempre nel Grossetano, per una spesa complessiva stimata di oltre 13 milioni. «È difficile – spiega Fortunato Angelini, presidente del Consorzio di bonifica VersiliaMassaciuccoli e presidente Urbat, l’Unione regionale dei consorzi di bonifica toscani – recuperare le risorse per questi interventi, tanto più in questi anni di crisi. È evidente che bisogna individuare le priorità e procedere per tappe, ipotizzando ad esempio un piano straordinario di opere da 500 milioni da spalmare su dieci anni». In Umbria, tra le priorità segnalate gli sono gli interventi per prevenire possibili danni da calamità naturali alle attività produttive lungo il fiume Topino nel comune di Nocera e sul torrente Marroggia, e ancora, il completamento della messa in sicurezza idraulica del fiume Nera (14 milioni) nonché l’adeguamento della sezione di deflusso e nuove arginature del torrente Orato a difesa dell’abitato di Sarteano (1,5 milioni), che è già in territorio toscano (Siena). Uno studio così dettagliato delle necessità del territorio non esiste per le Marche dove, dalla fine degli anni 90, le funzioni dei consorzi di bonifica sono state delegate alle province: la programmazione degli interventi per la riduzione del rischio idrogeologico è affidata alla disponibilità finanziaria degli enti con risultati a volte paradossali. Come nel caso della provincia di Pesaro e Urbino che ha finanziato gli interventi con l’8 per mille. «Il problema – spiega Massimo Galluzzi, assessore provinciale alla Difesa del suolo – è trovare le risorse. Abbiamo la necessità, ad esempio, di intervenire sul torrente Arzilla con un approfondimento del letto che costerebbe 500mila euro. Abbiamo richiesto fondi al ministero per l’Ambiente e alla Regione ma ancora non abbiamo avuto riscontro. Dal 2011 ci sono stati anche tagliati i 500mila euro di finanziamenti regionali destinati alla manutenzione di fossi e canali. L’intervento da un milione per la risistemazione degli argini del Metauro lo stiamo realizzando con risorse europee e, in parte, con i fondi dell’8 per mille. Sono molte, poi, le opere programmate e bloccate dal patto di stabilità nonostante ci sia la disponibilità di cassa per oltre 13 milioni di euro». In questo contesto, non aiutano le cattive abitudini dei cittadini che costruiscono abusivamente a ridosso dei fiumi – come accade lungo tutto il percorso del Po e dell’Arno, con il conseguente indebolimento degli argini – o che gettano i rifiuti nei canali e nei fossi, che anche per l mancanza di fondi per la manutenzione, si trasformano in discariche a cielo aperto, aumentando esponenzialmente il rischio alluvioni.
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