Roma? Lavora più di Berlino ma molto peggio

Fonte: Il Sole 24 Ore

Scansafatiche? Quando si parla della scarsa produttività italiana è questa l’immagine che potrebbe erroneamente prendere forma nell’opinione pubblica. Con una conseguenza immediata: far apparire come soluzione, semplicemente, lavorare di più. La laboriosità è indubbiamente una virtù da coltivare, anche e soprattutto in Italia; ma quando si parla del declino non è questo il vero problema. La produttività è nozione complessa, e non può essere semplicemente ridotta alla quantità di lavoro. Se non altro perché, in Italia, questa quantità è aumentata. Anche rispetto ai partner internazionali, Germania compresa. I dati dell’Ocse sulla produttività – tecnicamente la multi-factor productivity – sono rivelatori. In Italia il numero delle ore lavorate è cresciuto, negli ultimi 25 anni. Non in modo drammatico, anche a causa delle recessioni del ’92 e del 2007, ma comunque allo stesso ritmo della quantità di capitali (il volume dei servizi del capitale,una variabile di difficile calcolo, stimata dall’Ocse con criteri oggettivi). Aziende e lavoratori – in termini quantitativi – hanno dunque dato un contributo importante alla crescita, non inferiore a quello dei partner occidentali. Cosa è venuto meno, allora, al punto da far parlare di declino? Quella che gli studiosi chiamano la produttività multi-fattoriale, o produttività totale dei fattori. Un concetto residuale – e a volte contestato dagli economisti eterodossi – che cattura “tutto il resto”, quello che non è riconducibile a quantità di lavoro e capitale: il dinamismo tecnologico, e l’innovazione, innanzitutto – l’Italia non ama molto il nuovo – ma anche il capitale umano e quindi la qualità del lavoro, l’organizzazione, le economie di scala, le capacità manageriali. Oltre naturalmente alle regole che incentivano questi fattori. La produttività multifattoriale non è andata sempre male. Tra l’84 e il 2001 – crisi a parte – è aumentata a ritmi anche più rapidi di capitale e lavoro. Poi, però, con la recessione 2001-03 c’è stato un primo scivolone, mai recuperato nella successiva fase di stabilità, e dal 2006 un secondo calo. Il “sistema” si è arenato. Cosa è successo? Forse, nota qualche economista, questo schema di crescita italiana è stato l’effetto non voluto della riforma del lavoro – la legge Biagi è del 2003 – che, come è avvenuto anche altrove in Europa, ha reso più conveniente aumentare l’occupazione e ha spinto le aziende a trascurare altri fattori (ma non il capitale fisico). Più probabilmente ha pesato l’idea, cara al mondo politico, che quella riforma fosse sufficiente a rilanciare il paese, mentre occorrevano altri interventi, per esempio per creare e stimolare la concorrenza nei prodotti e, soprattutto, nei servizi. Altrove cosa è successo? In Germania, per esempio? La differenza è impressionante. Dal ’91, anno della riunificazione, l’economia tedesca ha visto prima calare – forse per effetto della crisi dell’Est – e poi stabilizzarsi il contributo alla crescita delle ore di lavoro che dal ’97 al 2007, prima della crisi, sono aumentate in media dello 0,02% annuo (in Italia dello 0,8%). Il volume di capitale è intanto cresciuto dello 0,5% durante tutto il periodo (con un rallentamento, in realtà dal 2001 in poi), contro lo 0,8% italiano. Cosa ha creato il miracolo, allora? Proprio la parte “residua”, il cui contributo è aumentato in media dell’1,2% annuo, (con un balzo in coincidenza con la riforma del lavoro Hartz IV entrata in vigore nel 2005). Le cose non sono andate molto diversamente in Francia, anche se l’esempio più interessante è quello degli Stati Uniti dove, negli ultimi 25 anni, le tre componenti (capitale, lavoro, produttività multifattoriale) sono aumentate quasi “a tempo”, a ritmi compresi tra 0,8% e l’1 per cento. E la parte più veloce – non è una sorpresa – è stata quella relativa all’innovazione.

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