Sentenza della Corte Costituzionale del 24 luglio 2025, n. 126: la Corte ha dichiarato inammissibile il ricorso in via principale promosso dal Presidente del Consiglio dei Ministri contro una norma della Regione Siciliana in materia di procedure di rinnovo delle autorizzazioni di cava e di assoggettamento alla Valutazione di Impatto Ambientale (VIA), ribadendo che nei giudizi in via principale il ricorrente deve individuare con precisione il testo impugnato, i parametri costituzionali e il loro collegamento. L’assenza di tale rigore argomentativo e l’errata ricostruzione della norma o del procedimento impediscono alla Corte l’esame di merito, a tutela della funzione stessa del sindacato di costituzionalità e dell’equilibrio tra competenze statali e regionali.
Ancora una volta, e di sicuro non sarà l’ultima, la Corte Costituzionale interviene in materia ambientale per ribadire che la protezione dell’ambiente e del paesaggio trova fondamento nell’articolo 9 della Costituzione, che impone alla Repubblica il dovere di valorizzare il patrimonio storico, artistico e ambientale della Nazione; ma nel panorama normativo nazionale e regionale questo principio, seppur fondamentale, non è sufficiente a fugare dubbi e perplessità ogniqualvolta il Legislatore regionale interviene in materia ambientale in virtù dello Statuto speciale. Nel nostro ordinamento infatti, la tutela dell’ambiente si articola su un doppio binario: da un lato l’esigenza di garantire livelli uniformi di protezione sull’intero territorio nazionale, dall’altro il riconoscimento dell’autonomia regionale, specialmente nelle Regioni a statuto speciale, in materia di governo e pianificazione del territorio.
Il principio generale convive dunque con il modello di competenze concorrenti introdotto dalla riforma del Titolo V: lo Stato determina i livelli essenziali di protezione ambientale, lasciando alle Regioni, e in particolare a quelle a statuto speciale, come la Sicilia, il potere di disciplinarne le modalità di attuazione sul territorio.
Nel caso di specie, l’articolo 14, comma 2, della l.r. 2 aprile 2024, n. 6 (Riordino normativo dei materiali da cave e materiali lapidei) sostituisce integralmente il comma 3 dell’articolo 2 della l.r. 5 luglio 2004, n. 10, prevedendo varianti non sostanziali e modalità semplificate per il rinnovo delle autorizzazioni alle attività estrattive che escludono l’applicazione della nuova procedura di valutazione di impatto ambientale.
Motivi del ricorso
Il ricorso focalizza la prima criticità sul punto in cui la l.r. n. 6/2024 interviene in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, riservata in via esclusiva allo Stato dall’art. 117, secondo comma, lett. s), Cost.
Secondo l’Avvocatura Generale, la sostituzione integrale del comma 3 dell’art. 2 della l.r. n. 10/2004 configura un esercizio di potere regionale che travalica i limiti dello Statuto speciale. Le modifiche apportate, con cui varianti ed estensioni alle concessioni di cava vengono etichettate come “non sostanziali” e sottratte a qualsivoglia verifica di impatto ambientale, incidono direttamente sul procedimento statale di VIA e sulle regole uniformi che lo Stato ha stabilito per garantire un livello minimo di tutela ambientale su tutto il territorio nazionale.
Il ricorrente insiste sul principio di omogeneità, richiamando la giurisprudenza della stessa Corte che ha più volte ribadito come lo Stato, nell’ambito della materia “tutela dell’ambiente e dell’ecosistema”, disponga di una competenza legislativa primaria finalizzata a stabilire regole uniformi, non derogabili in pejus, per preservare le medesime garanzie nei confronti dei cittadini indipendentemente dalla regione di residenza.
Il ricorrente mette in luce l’aspetto “trasversale” della materia ambientale, per cui pur non escludendo che le Regioni possano intervenire su fenomeni con ricadute ambientali, non si può disattendere l’esistenza di un “nucleo irriducibile” di competenza statale.
La disciplina regionale impugnata non si limita a integrare o specificare disposizioni statali, ma le sostituisce radicalmente nel settore delle attività estrattive, determinando un arretramento del livello di tutela sancito dal D.lgs. 152/2006. La novella legislativa attribuisce ad un ufficio tecnico regionale (ingegnere capo del distretto minerario) la valutazione discrezionale sull’idoneità de,e varianti al regime di VIA, in contrasto con la ratio del Codice dell’ambiente che demanda a un procedimento oggettivo di screening la determinazione della necessità di una valutazione più approfondita.
All’art. 9 Cost. il dettato costituzionale impone la tutela del paesaggio e dell’ambiente quale patrimonio dell’intera collettività. La norma regionale che esclude “a priori” categorie di varianti dall’assoggettabilità alla VIA contrasta con il principio di precauzione, previsto sia a livello costituzionale che comunitario, poiché non consente alcuna valutazione preventiva di possibili rischi ambientali e di danni irreversibili.
Così operando, secondo il ricorrente, si sottrae la verifica di compatibilità ambientale a una serie di interventi estrattivi, ancorché localizzati su aree prive di vincoli paesaggistici, e si espone il territorio a un concreto pericolo di degrado, mettendo oltretutto in discussione la partecipazione pubblica e la trasparenza del procedimento decisionale.
La Corte ha costantemente affermato che le Regioni, nell’esercizio delle competenze loro attribuite, non possono comprimere i “livelli essenziali di tutela” garantiti dalla normativa statale in materia ambientale, mentre al contrario l’art. 14, comma 2, della l.r. 6/2024 introduce una deroga generalizzata, elencando in modo aprioristico varianti considerate non sostanziali, senza alcun cenno all’impatto concreto sull’ambiente o sulla salute umana, così violando l’art. 5, comma 1, lett. l-bis), del d.lgs. 152/2006.
L’impossibilità di parametrarsi a una valutazione caso per caso sul rischio di effetti negativi rilevanti appare in contrasto con l’impostazione del Codice dell’ambiente, che richiede un’analisi puntuale dell’incidenza sul contesto territoriale e dei possibili impatti cumulativi.
La decisione della Corte
La Corte richiama la propria giurisprudenza recente per ribadire che, nel giudizio promosso in via principale dallo Stato, il rispetto delle norme procedurali non è mero adempimento formale, bensì condizione di ammissibilità imprescindibile. È consolidato principio della giurisprudenza costituzionale che l’impugnazione debba fondarsi su una motivazione rigorosa e puntuale, non tollerando genericità o approssimazione, analogamente a quanto affermato in precedenti pronunce della stessa Corte.
Nel ricorso in via principale lo Stato deve delimitare con precisione:
- Il testo normativo oggetto di censura, ossia la disposizione letterale da dichiarare incostituzionale;
- I parametri costituzionali violati, richiamando in modo non equivoco le norme dell’assetto costituzionale o legislativo ritenute lese.
In altri termini, secondo il Giudice delle Leggi, non è sufficiente una motivazione assertiva che dichiari la violazione di un principio: occorre fornire una “sintetica argomentazione di merito”, capace di spiegare in termini chiari e articolati la ragione per cui la norma regionale, ad esempio, riduce i livelli essenziali di tutela ambientale o travalica le competenze statutarie. In mancanza di tale sforzo argomentativo, l’impugnazione non soddisfa l’onere probatorio richiesto.
La Corte riscontra inoltre un errore di prospettiva decisivo: Stato e Regione hanno entrambi incentrato il loro ragionamento sulle “varianti non sostanziali”, pur essendo la norma impugnata strutturata sull’elenco di varianti da considerare “sostanziali”.
- Nel primo caso, l’elencazione delle modifiche “sostanziali” lascia aperta la possibilità di valutare caso per caso le restanti varianti;
- Nel secondo, l’elenco “non sostanziali” sottrae a priori alla VIA tutte le modifiche indicate, escludendo qualsivoglia verifica.
Questo equivoco ha determinato un’alterazione della prospettiva argomentativa, impedendo al ricorrente di confrontarsi con il vero contenuto normativo e di spiegarne le ricadute sui livelli essenziali di tutela ambientale stabiliti dallo Stato.
Il giudizio si conclude con la dichiarazione di inammissibilità in ragione della carenza motivazionale formale e sostanziale. Non essendo possibile rettificare ex post l’individuazione del testo e dei parametri, la Corte ha chiarito di non potere entrare nel merito della compatibilità della norma con l’art. 9 o l’art. 117 Cost. e con la disciplina della VIA del d.lgs. 152/2006.
La pronuncia conferma che, nei ricorsi in via principale, la correttezza procedurale e la precisione argomentativa costituiscono il presupposto inderogabile per l’esame sostanziale. Il mero richiamo a generiche espressioni come “varianti non sostanziali” senza un chiaro riferimento testuale e senza articolate ragioni di diritto e di fatto conduce all’improcedibilità del gravame, a salvaguardia della funzione di garanzia del giudizio, così come disciplinata della Corte.
La Corte rileva infine che il ricorso non prende esattamente in esame né il contenuto letterale della norma regionale né il rapporto con i parametri costituzionali evocati, in particolare la tutela ambientale e le competenze legislative esclusive dello Stato.
Senza individuare puntualmente il testo di legge impugnato e senza spiegare in che modo un elenco di “modifiche sostanziali” possa ledere i beni ambientali o travalicare le attribuzioni statali, la motivazione rimane generica e non consente alla Corte di comprendere la portata del contrasto invocato.
Conclusioni
In una prospettiva futura, la pronuncia della Corte Costituzionale ribadisce alcuni capisaldi che trascendono il caso concreto e si collocano nel più ampio quadro delle garanzie del giudizio in via principale.
Anzitutto, emerge con chiarezza il principio di tassatività e precisione dell’oggetto del ricorso: l’individuazione della disposizione impugnata, dei parametri costituzionali evocati e della loro relazione deve essere inequivoca, così da consentire alla Corte un controllo pieno e mirato. L’erronea o imprecisa ricostruzione del testo normativo e del procedimento cui esso si riferisce compromette sin dall’origine l’ammissibilità della questione.
Accanto a ciò, si consolida il principio di congruità e completezza della motivazione: la deduzione dell’illegittimità costituzionale esige un’argomentazione non meramente assertiva, bensì strutturata in un percorso logico-giuridico che metta in luce, con supporto di elementi fattuali e normativi, l’incidenza concreta della norma censurata sui beni costituzionalmente protetti e sulle competenze statali.
La sentenza riafferma altresì il principio di corretta qualificazione della materia che, nei rapporti con le Regioni a statuto speciale, impone di considerare, quando rilevante, lo Statuto di autonomia e le specifiche attribuzioni ivi previste, al fine di circoscrivere l’ambito di competenza e verificare l’eventuale interferenza con le potestà legislative statali, anche quando queste siano esercitate mediante norme fondamentali di riforma economico-sociale.
Infine, si ribadisce il principio di leale collaborazione nella dialettica istituzionale: il rispetto delle forme e la chiarezza delle argomentazioni non sono meri formalismi, ma strumenti funzionali a un sindacato di costituzionalità effettivo, capace di operare un bilanciamento equilibrato tra autonomia regionale e unità dell’ordinamento, senza pregiudicare la tutela di interessi primari come quello ambientale.
In tal modo, la Corte traccia una linea di continuità con la propria giurisprudenza, rafforzando un modello di contenzioso costituzionale in cui forma e sostanza procedono congiuntamente, a presidio dell’effettività del controllo e della certezza del diritto.
Pillole
Sulla GURS n. 38 del 29.08.2025, l’Assessorato del turismo, dello sport e dello spettacolo ha pubblicato il D.D.G. n. 2716 del 6 agosto 2025, avente ad oggetto: Approvazione dell’Albo regionale delle associazioni pro loco ricadenti nel territorio della Città metropolitana di Palermo per l’anno 2023.
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