Sul lavoro non c’è Unione fiscale

Fonte: Il Sole 24 Ore

Sulle tasse che colpiscono il lavoro i Paesi europei procedono a briglia sciolta. In poche parole, l’auspicato coordinamento delle politiche fiscali resta una chimera. Siamo in presenza di un sistema in cui i capitali sono «perfettamente mobili», mentre il lavoro è «perfettamente im-mobile». Alcuni Paesi del Sud Europa hanno adottato misure il cui esito è stato un incremento del prelievo, altri, soprattutto nel Nord e nell’Est dell’Europa, l’hanno ridotto, a fronte di un nocciolo di Paesi dell’Europa continentale che non hanno sostanzialmente modificato il livello complessivo di tassazione. In Italia, il discorso è più complesso: non si evidenzia una sorta di «accanimento tributario» sul lavoro, quanto piuttosto una pressione fiscale complessiva che resta molto elevata (oltre il 43% del Pil), e che finisce così per tradursi in un prelievo eccessivo su tutte le componenti. Il risultato è che da noi l’aliquota media effettiva sul lavoro dipendente è pari al 42,8%, contro il 41,4% della Francia, il 39,2% della Germania, il 30,5% della Spagna e il 26,1% del Regno Unito. È una fotografia a tutto campo quella che emerge dal ponderoso rapporto di «Econpubblica», il Centro di ricerca sull’economia del settore pubblico della Bocconi. Lo studio, effettuato su richiesta della Commissione europea, è al centro oggi di un convegno alla Bocconi che sarà aperto dal rettore Guido Tabellini, con interventi introduttivi di Roberto Artoni e Alessandra Casarico e relazioni di Paola Profeta, Carlo Devillanova, Carlo Cottarelli, Asa Johansonn e Guido Vanderseypen. Seguiranno le relazioni di Giampaolo Arachi e Alberto Zanardi e in conclusione una tavola rotonda sulla riforma della tassazione del lavoro in Italia, con Susanna Camusso, Stefano Fassina, Vincenzo Boccia e Luigi Casero. Tema di grande rilievo, oggetto da tempo di acceso confronto politico nel nostro Paese, con margini di intervento che appaiono per la verità piuttosto esigui, alla luce degli stringenti vincoli di finanza pubblica cui il nostro Paese è chiamato per effetto di un debito pubblico che veleggia verso il 120% del Pil e del percorso di rientro imposto dalla nuova governance economica europea. Si invocano spesso da noi i confronti internazionali. Ecco un’occasione propizia, poichè il rapporto analizza l’impatto delle politiche relative alla tassazione del lavoro dal 1990 al 2008 nei ventisette Paesi membri dell’Unione europea, ed estende il suo spettro anche a Croazia, Macedonia, Islanda, Giappone, Serbia e Stati Uniti. Ben 33 Paesi sotto esame, dunque, per concludere che l’Europa resta «un’area ad alta tassazione sul lavoro all’interno dei Paesi Ocse». Nonostante la riduzione generalizzata del-‘aliquota marginale più alta dell’imposta sul reddito da lavoro, il prelievo misurato sul totale del carico fiscale è cresciuto tra il 2000 e il 2009. L’elenco è impressionante: dal 1990 al 2008 vi sono state 1.331 riforme, con una media di circa 40 interventi per ogni Paese e circa 70 all’anno. In 99 casi il carico fiscale sul lavoro è stato ridotto, in 96 è aumentato. Ciascuno per la propria strada: 121 riforme hanno ridotto le deduzioni, 105 le hanno incrementate. Le riforme della contribuzione sociale sono state nello stesso periodo ben 1.658. Il vero problema è che tale mole di interventi, se misurata su tasso di disoccupazione, occupazione, tasso di inattività e ore settimanali di lavoro, appare «relativamente debole». Vi sono tuttavia alcuni segmenti del mercato del lavoro, in particolare femminile, in cui le evidenze paiono più marcate. Se invece l’attenzione si sposta sull’indice di povertà, l’impatto diventa «statisticamente non significativo». I colli di bottiglia vanno dunque ricercati altrove, in un sistema complessivo che non riesce a essere sufficientemente competitivo, e dunque a creare benessere, crescita e occupazione. Lo conferma il rapporto, nel passaggio in cui si invitano i governi a inserire la politica fiscale in «un approccio integrato» con gli altri strumenti classici di intervento sul mercato del lavoro, «come gli accordi sulla contrattazione salariale, i servizi per il collocamento, i programmi di istruzione, il supporto alla mobilità». Dal 1965 alla metà degli anni Novanta il prelievo complessivo sul lavoro in Europa si è attestato al 40% del Pil, contro il 35% della media Osce. Ma l’Europa è tutt’altro che un’«area omogenea». Dal 1995 al 2008 solo due Paesi, Olanda e Regno Unito, hanno conservato un livello di tassazione sul lavoro relativamente basso, mentre Austria, Italia e Svezia si mantengono stabilmente su un alto livello del prelievo. Negli ultimi cinque anni la struttura della tassazione sul lavoro è stata «relativamente stabile» in quattro Paesi (Irlanda, Lussemburgo, Danimarca e Austria). I Paesi del sud Europa, con l’eccezione dell’Italia, sono passati da un livello molto basso di tassazione a un sistema caratterizzato da un più alto livello di prelievo, in particolare il Portogallo. Da noi gli unici margini che possono aprirsi per ridurre il carico fiscale sul lavoro riguardano eventuali interventi sull’Iva. Con tutte le avvertenze del caso, per gli effetti potenzialmente inflattivi di aumenti della tassazione indiretta che andrebbero a colpire i consumi, il cui stato di salute non è certo dei migliori.

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