Ma sulla sanità occorre un federalismo bipartisan

Fonte: Il Sole 24 Ore

Con il voto di fiducia alla Camera di ieri è finalmente terminato l’iter del decreto del federalismo municipale, che diventa ora legge dello Stato. La vicenda lascia un po’ d’amaro in bocca. Sul piano del metodo, è deprimente che un percorso iniziato con l’approvazione quasi unanime da parte del Parlamento di una legge delega, e proseguito per parecchio tempo in modo altrettanto bipartisan, finisca in rissa e a colpi di fiducia. Dimostra l’incapacità delle forze politiche italiane di trovare un minimo comune denominatore anche su riforme che per propria natura nulla dovrebbero avere a che vedere con elementi di parte, quale appunto la ricostruzione, in attuazione di una precisa norma costituzionale, di nuovi rapporti finanziari tra centro e periferia. Sul piano del merito, il decreto presenta qualche luce e molte ombre, su cui si è già a lungo insistito su queste pagine. Ombre anche nel senso letterale di mancanza di chiarezza, visto che il decreto rimanda in realtà al futuro le decisioni sui nodi più importanti della riforma. Non a caso il governo starebbe valutando una breve proroga dei termini per l’esercizio complessivo delle deleghe. Non si sa bene come la nuova compartecipazione comunale all’Iva sarà determinata, vista l’assoluta mancanza d’informazioni sulle basi imponibili locali, o che succederà, passato il periodo di transizione, ai fondi perequativi comunali. Ci si può forse consolare pensando che poiché gli elementi più controversi della riforma, a cominciare dall’introduzione della stessa Imu, la nuova imposta unica municipale, sono rimandati al 2014, ci sarà probabilmente tempo per ripensarci. Nell’immediato, gli effetti saranno comunque modesti. I comuni riusciranno probabilmente a chiudere i bilanci nel 2010 con qualche maggior tranquillità, grazie allo sblocco parziale e retroattivo del-l’addizionale sull’Irpef. Per i cittadini la novità più importante riguarda invece l’introduzione della nuova cedolare secca sugli affitti, una riforma che c’entra in realtà poco con il federalismo municipale, ma che è stata inserita nel decreto. Avvantaggerà i contribuenti onesti e potrebbe portare a un’emersione dell’imponibile, anche se bisognerà vedere se le ipotesi ottimistiche della Ragioneria dello Stato in questo campo saranno poi sostenute dai fatti. Approvato il decreto sul federalismo municipale, è però tempo di guardare avanti. E nell’immediato c’è il decreto di riforma del fisco regionale, su cui è iniziato l’esame da parte della commissione parlamentare. Qui le possibilità di una soluzione bipartisan e di un compromesso non al ribasso ci sono tutte, anche perché il decreto innova meno nei confronti dell’esistente rispetto a quello comunale. Restano tuttavia, assieme a molti punti ancora non chiari, alcuni nodi fondamentali che devono essere affrontati primariamente. Il primo riguarda i meccanismi impositivi. Il loro impianto è previsto sugli attuali tributi regionali, ma con qualche innovazione importante. Si prevede un incremento nella componente obbligatoria dell’addizionale regionale sull’Irpef, per compensare trasferimenti e compartecipazioni abolite, un maggior spazio di manovra attribuito gradualmente alle regioni sulla parte discrezionale dell’addizionale, sia sulle detrazioni che sull’aliquota, nuovi criteri per l’attribuzione territoriale della compartecipazione all’Iva, e infine la riattivazione della possibilità di variare l’aliquota sull’Irap. L’accresciuta autonomia tributaria è da salutare con favore. Solo che essa è accompagnata nel decreto da tanti lacci e laccioli che ci si domanda quale sia l’effettiva intenzione del legislatore. Per esempio l’Irap si può solo diminuire, non aumentare, e comunque la riduzione dell’Irap non può avvenire se si aumenta l’addizionale Irpef al di sopra dell’attuale 0,5% discrezionale. Ancora, l’addizionale Irpef può aumentare sopra questo livello, ma per tutti gli scaglioni solo per i lavoratori autonomi; per i dipendenti e assimilati, solo dal terzo scaglione in poi. Si osservi anche che non è noto su quale base questi esercizi di autonomia tributaria dovrebbero innestarsi, perché rimane imprecisata nel decreto la dimensione della componente obbligatoria dell’addizionale regionale sull’Irpef. Infine, su tutto questo aleggia il vincolo dell’invarianza della pressione tributaria («l’esercizio dell’autonomia tributaria, in ogni regione, non può comportare un aumento della pressione fiscale sul contribuente») che preso alla lettera rischia di rendere impossibile ogni intervento (come si può lasciare inalterata la pressione tributaria su ogni singolo contribuente?). È evidente che se davvero s’intende rafforzare l’autonomia tributaria regionale, la commissione bicamerale è chiamata a un’opera radicale di chiarificazione e di bonifica dei vincoli presenti nel testo attuale del decreto. L’altro grande tema ancora da chiarire riguarda il ruolo dei costi standard nel riparto dei fondi sanitari e in prospettiva, delle altre parti della spesa regionale destinata alle funzioni fondamentali. Qui la scelta del governo è stata quella di introdurre sì i costi standard, attraverso un sistema complicato di determinazione di un sottoinsieme di regioni “efficienti”, ma di renderli, di fatto, non operativi. Il riparto dei fondi sanitari avverrà in futuro, così come in passato, in proporzione a un pro capite pesato per l’età della popolazione. Ma introdurre dei costi standard, per poi renderli non operativi, non ha molto senso. Pur riconoscendo l’opportunità che il riparto dei fondi avvenga sulla base di criteri semplici, come il pro capite pesato, sarebbe comunque utile impiegare i benchmark almeno come sistema di incentivazione per le regioni, premiando quelle che con il tempo vi si avvicinano di più. A questi meccanismi di incentivazione e a un sistema altrettanto efficace di sanzioni per le regioni inadempienti, che contemplino anche il “fallimento politico” per gli amministratori più incapaci, è legata la possibilità di migliorare davvero la gestione sanitaria.

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