La sfida del Fisco a misura di territorio

Fonte: Il Sole 24 Ore

La disponibilità, e il coraggio, di far da sé che si rivela nel privato, nel tessuto diffuso delle piccole e medie imprese e nella crescente attitudine dei lavoratori a farsi imprenditori di se stessi, ha un risvolto nella dimensione pubblica. Quella stessa capacità di far da sé emerge anche nella produzione di beni e servizi collettivi e chiede di essere agevolata, o quanto meno non scoraggiata, in un’ottica sussidiaria che cessa di reclamare servizi pubblici tradizionali e si orienta su un ruolo più ampio dei corpi sociali, richiedendo allo Stato, semmai, minori oneri fiscali. Le aspirazioni a un fisco rinnovato sono assolutamente giustificate. Esso non può essere indipendente dalla realtà economica e sociale circostante. Restare arroccati oltre ogni ragionevole limite attorno a un sistema concepito oltre quarant’anni fa ha prodotto due perniciose conseguenze: si sono determinati effetti dannosi sul sistema produttivo e inefficienza delle politiche di bilancio, costrette a inseguire l’emergenza degli obiettivi di deficit senza poter uscire dalla spirale del maggiore prelievo, con effetti di penalizzazione della crescita e degli investimenti pubblici; la crescente distanza fra le richieste fiscali dello Stato, i servizi offerti e quelli a cui aspirano i cittadini ha condotto a una fedeltà fiscale sempre meno convinta. La rilevanza dell’elemento fiscale ai fini della coesione interna e della competitività internazionale richiede cambiamenti profondi non solo di tipo quantitativo, intervenendo sulle aliquote, ma soprattutto di tipo qualitativo, con riferimento alle modalità del prelievo e alla stessa organizzazione delle pubbliche amministrazioni. Già nel 1994 il Libro bianco di Giulio Tremonti individuò tre direttrici della riforma fiscale: dal centro al territorio, dalle persone alle cose, dal complesso al semplice. La prima linea di intervento è stata doverosamente quella del federalismo fiscale. La necessità di conferire indipendenza impositiva alle Regioni e al sistema delle autonomie locali è stata dettata da esigenze di controllo della spesa, di maggiore qualità dei servizi erogati, di relazione responsabile tra amministratori e amministrati. La riforma avviata è solidale perché garantisce teoricamente a ciascun ente, se bene amministrato, qualunque sia la capacità fiscale del suo territorio, le risorse adeguate per assicurare i livelli essenziali delle prestazioni o i fabbisogni, rilevati con criteri oggettivi. Se i primi impulsi alla riforma sono venuti dalle aree più efficienti del Nord, sono soprattutto i cittadini dei territori viziati da croniche inefficienze a poter trarre vantaggio dalle nuove regole di responsabilità degli amministratori. Il superamento della vigente fiscalità di svantaggio che limita le possibilità di crescita del Centrosud è, nonostante le difficoltà della transizione, a portata di mano. L’impostazione di governo fondata su una rigida programmazione economico-finanziaria centralizzata e invasiva ha da tempo evidenziato i suoi limiti intrinseci, insieme con quelli delle ideologie che la sostenevano. Si è cioè conclusa la fase storica nella quale prioritaria – a prescindere dalla sostenibilità dei conti pubblici – era l’estensione della base democratica dello Stato repubblicano attraverso la garanzia centrale dei diritti e dei servizi riconosciuti programmaticamente dalla Costituzione. Un compito che richiedeva, inevitabilmente, un vasto sforzo redistributivo a livello nazionale e quindi il sovradimensionamento finanziario dello Stato centrale rispetto alle autonomie locali. Coerenti con questa impostazione erano l’illusione di uno sviluppo irreversibilmente acquisito, assetti produttivi e occupazionali tendenzialmente stabili, un fisco orientato solo a un gettito capace di coprire le necessità crescenti della spesa pubblica. Fondamentale in questo contesto è stato il prelievo sui redditi da lavoro organizzato in base alla elementare – e ideologica – discriminazione tra i diversi livelli dimensionali, secondo il criterio di una esasperata progressività. Sostenere una crescita faticosa in un contesto globale competitivo e promuovere l’occupazione in un tempo in cui le nuove tecnologie tendono a contrarla deve invece condurre a un sapiente uso della leva fiscale. E a proposito del lavoro, sembra più coerente con questi obiettivi un’attenuazione del prelievo tramite la riduzione delle aliquote e della progressività, con la distinzione tra redditi di base, uguali per tutti secondo i contratti nazionali, e redditi da risultato o da maggiore produttività, dipendenti dall’impegno del singolo e dall’andamento economico dell’azienda. Voluta in un primo momento solo dal sindacato riformista, questa impostazione appare ora più diffusamente accettata, anche nel nome della sostituzione del vecchio «conflitto distributivo» con la più moderna condivisione, tra lavoratori e imprenditori, delle fatiche come dei risultati. Analogamente, merita attenzione l’impresa che produce ricchezza investendo capitale di rischio, anche allo scopo di attrarre investitori esterni. E, più in generale, la nuova tassazione sulle imprese dovrà escludere dalla base imponibile il costo del lavoro, per non penalizzare l’occupazione. Il progressivo riequilibrio tra imposte dirette e indirette, il passaggio del baricentro dalle persone alle cose segna il definitivo superamento dell’ideologia novecentesca, per un approccio più efficacemente equo. Anche a questo proposito è stata significativa l’adesione del sindacato riformista. La semplificazione radicale degli adempimenti tributari rappresenta poi – con la riduzione della pressione fiscale – uno strumento fondamentale per costruire una maggiore convenienza alla leale collaborazione tra contribuenti e amministrazione finanziaria. In questo contesto gli stessi strumenti sanzionatori, a partire dalla selezione degli obiettivi di indagine, operano con ben maggiore efficacia. Con riferimento, infine, al rapporto fra Stato e cittadini, alla contropartita che questi si attendono dal rispetto dei loro doveri fiscali, ancora maggiori sono le necessità di riordino, dalla ridefinizione degli indicatori dello stato di bisogno all’identificazione degli strumenti più idonei a sostenerlo. Si è prodotto nel tempo, secondo modalità disordinate che hanno dato luogo a duplicazioni e sovrapposizioni, un secondo sistema di protezione sociale, che si dispiega attraverso molteplici forme di agevolazione fiscale. Esso costituisce una realtà molto meno visibile, ma egualmente consistente, rispetto al fondamentale pilastro delle prestazioni dirette. Separare il dovere fiscale da quello pubblico di assistenza sociale richiede di mettere mano a entrambe le realtà. Si pensi, per esempio, agli oltre 65 miliardi dedicati, tra prestazioni e agevolazioni fiscali, al sostegno della famiglia, che peraltro non garantiscono un’adeguata proporzione in relazione al numero dei figli o di altri componenti a carico; o, ancora, ai circa 30 miliardi dedicati all’invalidità, ampiamente determinati in base a logiche inappropriate come il ricovero in ospedali generalisti per malati acuti. La razionalizzazione delle agevolazioni può corrispondere al superamento di una pretesa funzione educativa dello Stato – realizzata con il premio fiscale a ciò che apprezza – per privilegiare da un lato un regime fiscale «pulito » da possibilità di erosione della base imponibile, che danno spesso luogo a fenomeni di elusione; dall’altro, una maggiore libertà responsabile dei cittadini nella scelta dei comportamenti utili a soddisfare i propri bisogni, sostenuta da una minore pressione fiscale e da un efficiente sistema di prestazioni dirette. Le residue agevolazioni possono concentrarsi sul valore fondamentale della vita, a partire dalla nuova vita e dai bisogni di cura che ne derivano, e sullo strumento della sussidiarietà, allo scopo di sollecitare forme di auto-organizzazione dei singoli, delle famiglie, delle comunità. Ricondurre a dimensioni ragionevoli gli oltre 160 miliardi di agevolazioni è, peraltro, l’unico modo per giungere a una riduzione delle aliquote delle imposte sui redditi. In parallelo a questa razionalizzazione si rende necessario il riordino delle prestazioni sociali, affinché siano indirizzate ai soggetti effettivamente bisognosi, si integrino – quanto più in termini di prossimità – con le politiche della salute, del lavoro e dell’istruzione, siano funzionali a promuovere il ruolo sussidiario delle famiglie e delle forme associative. Si pensi solo all’ipotesi di trasferire ai servizi sanitari regionali le risorse relative all’indennità di accompagnamento dei disabili, per farne un’indennità sussidiaria utile a sostenere l’assistenza domiciliare. Si è consumato il tempo della dispersione a favore di soggetti che possono ragionevolmente provvedere a se stessi, dell’offerta in tutto e per tutto pubblica a prescindere dall’esigenza di contenuti relazionali, di una visione delle politiche sociali a sé stante e risarcitoria. L’obiettivo fondamentale consiste nell’accompagnare la persona lungo tutto l’arco della vita in termini tali da offrire sempre opportunità di autosufficienza. Per questo è essenziale organizzare presso l’Inps il fascicolo elettronico della persona e della famiglia, che consente di monitorare tutte le prestazioni e le agevolazioni, individuare abusi o insufficienze, sollecitare la leale collaborazione tra Stato, Regioni, enti locali, comunità.

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