La regione autonoma spende il triplo

Fonte: Il Sole 24 Ore

Fabbisogni standard, risorse locali, perequazione. La macchina del federalismo fiscale si è messa ufficialmente in moto, le sue parole d’ordine occupano consigli dei ministri, enti territoriali e decine di convegni, ma c’è una domanda che ancora non è rimasta in sordina. E le regioni autonome? Più precisamente: parteciperanno, e in che misura, alla partita degli standard e della perequazione? La cornice del federalismo, rappresentata dalla legge 42/2009, lascia aperto il campo: spiega che anche le autonomie speciali concorreranno agli «obiettivi di perequazione e solidarietà», ma precisa che lo faranno «nel rispetto dei rispettivi statuti». Una formula spuntata dagli interessati dopo un braccio di ferro che è riuscito ad addolcire i progetti originari. La strategia degli interessati, soprattutto al Nord, è chiara: la loro «partecipazione » allo sforzo federalista potrà realizzarsi attraverso l’assunzione di nuove funzioni, ma i soldi dovranno restare dove sono. L’esito non è scontato e interessa da vicino anche i comuni perché, come spiega il nuovo rapporto sulla finanza locale presentato giovedì dall’Ifel,«la questione della quantificazione delle risorse non è così semplice». Valle d’Aosta, Trentino e Friuli hanno già regolato la propria finanza locale con discipline regionali, mentre i sindaci nelle isole dipendono ancora dai trasferimenti statali che valgono 2,3 miliardi all’anno. Queste risorse entrano o no nella partita della “fiscalizzazione” dei trasferimenti? A questo si aggiungono i trasferimenti regionali, che nelle sei amministrazioni valgono 5 miliardi e che, soprattutto al Nord, offrono una dotazione record per disinteressarsi nei fatti dei costi standard. La questione è cruciale per tutti. Se i giochi dei territori autonomi si svolgono tutti dentro ai confini della regione, i relativi trasferimenti non entrano nella perequazione nazionale, e anche i fabbisogni standard cambiano di segno. Le città siciliane, per esempio si confronteranno solo tra loro,consolidando l’attuale dotazione di risorse? E che rilevanza avranno i fabbisogni standard in aree, come quelle settentrionali, spinte da generosi aiuti regionali? Per avere un’idea sulle differenze dei bilanci basta dare una scorsa alla relazione tecnica sui conti regionali, elaborata dalla commissione paritetica per l’attuazione del federalismo fiscale. In media, chi governa una regione autonoma poggia su risorse maggiori del 41% (nei tributi la differenza è all’86%) rispetto a chi gestisce un territorio “normale”. Il derby più squilibrato è quello che si gioca a Nord-Ovest, fra Piemonte e Valle d’Aosta: nella Vallée la regione può contare su tributi per oltre 11mila euro ad abi-tante, e la colonna delle entrate totali viaggia a livelli vicini ai 16.500 euro a cittadino, mentre a Torino se la devono cavare con una dote 7 volte inferiore. Dall’altra parte della pianura padana si suona una musica simile; A Venezia le entrate complessive non arrivano a 4mila euro ad abitante, e contano pochi spiccioli in più rispetto alla Lombardia: nella Provincia autonoma di Trento la stessa voce segna 10.600 euro, e nel più moderato Friuli Venezia Giulia si ferma poco sopra i 7mila. Decisamente meno ricco il bilancio dell’autonomia meridionale, che vince comunque il confronto con i vicini ordinari. Affiancando i bilanci delle due grandi regioni del Sud, Sicilia e Campania, si scopre che sull’Isola i tributi valgono il doppio rispetto a Napoli. I poderosi trasferimenti statali riequilibrano i conti sul fronte delle entrate totali, ma bisogna vedere quante di queste risorse sopravviveranno agli standard federalisti. Con entrate così robuste il decollo delle spese è un fatto scontato. In rapporto agli abitanti, le regioni autonome spendono l’80% in più delle altre: i loro uffici costano quattro volte tanto quelli ordinari, i fondi per l’agricoltura sono cinque volte più importanti, quelli per l’assistenza sociale valgono il triplo, e così via. Solo nei trasporti lo statuto ordinario batte quello autonomo, ma la media è influenzata dallo scarso impegno economico mostrato dalla Sicilia. Certo, il bengodi non è gratuito, perché dall’istruzione ai trasporti, dalla viabilità all’assistenza sono molti i compiti che le regioni autonome svolgono senza l’intervento dello stato che caratterizza i territori ordinari. A nord, però, i conti non pareggiano nemmeno così, come mostrano i numeri appena aggiornati dal Tesoro sulla spesa pubblica per regione: a ogni piemontese, lombardo veneto o emiliano, giusto per rimanere nelle zone più ricche, stato ed enti territoriali dedicano in media 14-15mila euro, mentre la cifra destinata a ogni valdostano sfiora i 23.500 euro, e viaggia verso i 18mila euro a Trento e in Friuli Venezia Giulia.

LE REGOLE
Il segreto dell’autonomia si chiama «compartecipazione», e riguarda le risorse fiscali che rimangono sul territorio senza passare da Roma. Per le regioni ordinarie la compartecipazione funziona quasi solo per l’Iva,e viaggia oggi intorno al 45%, distribuita per i nove decimi in base alla spesa storica. La torta finisce quasi tutta nel Mezzogiorno, con la conseguenza pratica che al Sud si ferma anche il 70-80% dell’Iva prodotta sul territorio, in Lombardia e Veneto non si va oltre al 30 per cento. Nei territori autonomi vale in genere la regola del 90%. In Trentino Alto Adige resta a casa il 90% di Iva, imposte di registro, bolli, imposte su successioni e donazioni, proventi del lotto, tasse di circolazione, imposta sui tabacchi e combustibile da autotrazione (e il 100% dell’imposta sull’energia elettrica). In Val D’Aosta il principio del 90% riguarda, fra l’altro, Irpef, Ires, bolli, registro, concessioni, circolazione, tabacchi, lotto, ipoteche, oltre alle imposte sulla fabbricazione della birra e sul consumo di caffè e cacao. In Sardegna, oltre al 90% di una ricca serie di imposte, la regione trattiene il 70% di Irpef e Ires, mentre in Friuli le quote di compartecipazione sono un po’ più contenute, e trattengono l’80% dell’Iva, il 60% dell’Irpef e il 45% dell’Ires. In Sicilia la partita federalista si gioca invece soprattutto sul gettito delle accise:l’articolo 37 dello statuto siciliano chiede infatti che rimanga sull’isola una quota delle accise sui prodotti petroliferi estratti o lavorati sul territorio da imprese che hanno sede fuori dal territorio della regione. La regola non è mai stata attuata davvero, ma potrebbe esserlo con i decreti legislativi sul federalismo fiscale: la legge delega (articolo 27) ha infatti previsto di ridiscutere con i territori autonomi la ripartizione delle accise, con una previsione cucita su misura per Palermo e dintorni. La concessione, entrata nella legge dopo un braccio di ferro con il governatore siciliano Raffaele Lombardo, dovrà tradursi in numeri,e l’esito non è scontato: finora, tutti i tentativi regionali di anticiparla con leggi locali si sono scontrati con la bocciatura da parte della Corte costituzionale

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