È tempo di lavorare per sostenere gli stipendi senza mettere in pericolo la tenuta del sistema. I bonus, le una tantum e il cuneo fiscale possono servire, ma l’arma migliore è quella negoziale perché ragiona a tre anni e cura il valore aggiunto della singola categoria. C’è uno spazio ragionevole per adeguare i salari all’inflazione senza innescare una pericolosa spirale, un’inarrestabile rincorsa? Quella che teme, più di ogni altro effetto perverso, il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco? La risposta è sì. Ci viene, prima di tutto, in soccorso, la storia economica degli Anni Settanta. La memoria popolare, purtroppo, si è persa. E, dunque, sia le famiglie sia le imprese non hanno più alcuna dimestichezza con il fenomeno inflattivo, non lo incorporano nelle loro scelte quotidiane. Le generazioni più giovani, quelle dell’euro, non l’hanno praticamente mai conosciuto. Anzi, sono state alle prese con l’anestetico (ma a lento rilascio velenoso) dei tassi d’interesse zero o negativi. Ora lo scenario è totalmente ribaltato. Un altro mondo. E fatichiamo a rendercene conto. L’idea di una copertura totale dei costi dell’inflazione è del tutto illusoria. Ingannevole prometterlo. La scala mobile e i meccanismi di indicizzazione non proteggevano dall’inflazione ma la ricreavano mentre il Paese diventava via via meno competitivo, più diseguale (soprattutto ai danni di chi non era protetto) e alla fine impoverito dalla caduta dei redditi reali. Ci mettemmo anni a comprendere la perniciosità degli automatismi, facili da introdurre, politicamente ardui da rimuovere.
La soluzione che si trovò dopo la crisi finanziaria del 1992 e il crollo della lira, con un accordo tra le parti sociali con il governo Ciampi, fu quella di una politica dei redditi che, proteggendo i più deboli, si impegnò a creare le condizioni per un’inflazione in discesa. Oggi però gran parte di questa inflazione è importata, ovvero legata ai prezzi dell’energia. Non dipende da noi. Vero. Ma il nostro compito è impedire, nel limite del possibile, che ne innesti una, endogena, che se non controllata tenderà a ingigantirsi. L’ultimo dato aggiornato a maggio è, su base annua, al 6,8 per cento. Gran parte dei contratti stipulati negli scorsi decenni escludevano ed escludono il recupero dell’inflazione causata dall’andamento dei costi dell’energia. Ma abbiamo avuto lunghi periodi nei quali, questi ultimi, sono anche diminuiti e non di poco. Negli ultimi dieci anni, comunque, i salari contrattuali italiani sono aumentati appena dell’1,2 per cento in generale e dell’1,6 per cento nell’industria. Una miseria.
La situazione oggi è completamente diversa. Nell’emergenza si possono trovare – ed è già accaduto – compensazioni una tantum, come il bonus di 200 euro che sarà erogato in luglio, o permanenti sul versante della riduzione del cuneo fiscale. Ma l’arma migliore resta quella contrattuale. Innanzitutto perché ci costringe a ragionare su un orizzonte triennale, a medio termine, e soprattutto a dedicare maggiore attenzione alla produttività, senza l’aumento della quale i salari reali non crescono…
* Articolo integrale pubblicato sul Corriere Economia del 20 Giugno 2022.
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