Indice
- La premessa di partenza del ddl 1457 e la paura della firma
- Un utile esempio iniziale: la non generalizzazione dell’attività di controllo preventivo
- La inconsistenza del mito del nuovo controllo previsto dal ddl come momento esonerativo a latitudine universale
- L’irresponsabilità politica quale privilegio di casta
- Il mito della paura della firma quale alibi riformatore
- Un nuovo doppio binario a giustizia a due facce: immunità per i vertici, iper-responsabilità per i funzionari
di TIZIANO TESSARO
La premessa di partenza del ddl 1457 e la paura della firma
Come è ampiamente noto, il disegno di legge n. 1457/2025 (Atto Senato 1457) muove dall’assunto, postulato dalla sentenza della Corte cost 132/2024, ma, nondimeno, problematico, della tanto evocata paura della firma.
E invero, quella pronuncia -chiamata a scrutinare l’assetto eccezionale introdotto in fase pandemica, nel quale il legislatore aveva temporaneamente ristretto la responsabilità amministrativa alle sole condotte dolose per gli atti commissivi (il c.d. “scudo erariale”)- ha ribadito che la colpa grave costituisce il “minimum” soggettivo della responsabilità per danno erariale, cioè il punto di equilibrio tra l’esigenza di non disincentivare l’azione amministrativa e quella, simmetricamente rilevante, di non indulgere in condotte foriere di pregiudizio per le finanze pubbliche; la Corte, richiamando il proprio filone classico, ha nuovamente indicato che la prospettiva di responsabilità , quale “stimolo, e non disincentivo” all’azione, senza scivolare nel privilegio dell’irresponsabilità (Corte cost. 371/1998), serve precisamente a ripartire razionalmente il rischio d’amministrazione tra apparato e agente, così che in tale cornice, la paura della firma non è letta come “patologia” da estirpare con immunità ex lege, bensì come tensione fisiologica di un sistema che, mantenendo la soglia della colpa grave, responsabilizza il funzionario evitando, tuttavia, zone franche indiscriminate. Come rimedio, il ddl propone di neutralizzare tale fenomeno –secondo la descrizione che è stata divulgata anche ai media- attraverso l’introduzione di strumenti volti a rafforzare il controllo preventivo di legittimità demandato alla Corte dei conti e a potenziare la funzione consultiva con effetti escludenti la colpa grave per gli atti conformi ai pareri della Corte: in particolare, art. 3 L. 20/1994 come novellato dall’art. 1, lett. b) del DDL, con l’inserimento dei commi 1-ter, 1-quater, 1-quinquies e 1-sexies sul controllo preventivo per atti PNRR/PNC e con la previsione che, decorso il termine perentorio, “l’atto si intende registrato anche ai fini dell’esclusione di responsabilità” (art. 1, lett. b, n. 2, comma 1-ter, periodo finale. A ciò si aggiunge il nuovo art. 2 del DDL, che prevede pareri consultivi della Corte dei conti con effetto ex lege di esclusione della gravità della colpa per gli atti adottati in conformità (comma 1), e con silenzio-assenso qualificato ai medesimi fini allo spirare del termine di trenta giorni (comma 2).
Secondo tale schema, la responsabilità del funzionario si ridurrebbe fino ad annullarsi quando l’atto sia stato previamente vagliato positivamente (in sede di controllo) o quando sia adottato conformemente al parere reso; ne conseguirebbe, nella narrazione della riforma , una maggiore libertà decisionale e un correlato decremento dell’inerzia amministrativa.
>> LA SCHEDA DI LETTURA RELATIVA AL DDL 1457 DEL 2025 (ATTO SENATO 1457).
Un utile esempio iniziale: la non generalizzazione dell’attività di controllo preventivo
Una volta compreso quindi dove si colloca il presupposto teorico delle proposte riformatrici contenute nel DDL S. 1457, ovverosia valorizzare controlli preventivi e pareri per orientare le decisioni e per dare certezza ex ante, senza smantellare l’architrave della colpa grave, per comprendere appieno le tensioni che attraversano l’attuale dibattito sulla responsabilità amministrativa, conviene muovere da un esempio concreto, che funge da cartina di tornasole della distanza, sovente abissale, tra la teoria riformatrice e la sua effettiva praticabilità, e tra gli enunciati teorici e il loro precipitato pratico.
Quando il modello normativo si confronta, infatti, con le ipotesi concrete previste dall’ordinamento, emergono contraddizioni tanto evidenti quanto difficilmente superabili, che fanno comprendere come queste affermazioni si collochino a valle di una analisi quanto meno approssimativa delle dinamiche dell’amministrazione attiva nell’ordinamento vigente . Si pensi, per cominciare, al caso della delibera di riconoscimento dei debiti fuori bilancio (art 194 Tuel) , atto di competenza del consiglio comunale, corredato – come previsto dall’ordinamento vigente(art 49 Tuel e art 239 Tuel)- dai pareri dei responsabili finanziari e dal parere obbligatorio dell’organo di revisione. In simile evenienza, i meccanismi di controllo introdotti dal disegno di legge non operano affatto: il controllo preventivo di legittimità è tipizzato e, nella riforma, viene estensivamente riferito ai soli contratti connessi a PNRR/PNC (con possibilità per Regioni ed Enti locali di estenderlo, ma limitatamente a quegli atti e oltre determinate soglie; art. 1, lett. b, n. 2: nuovo art. 3, commi 1-ter, 1-quater, 1-quinquies e 1-sexies, L. 20/1994), non già a deliberazioni come gli atti di riconoscimento ex art. 194 TUEL. Ne deriva che, in fattispecie del genere (come in molti altri casi, come si vedrà), il quadro riformatore non opera alcuna copertura esonerativa, né tantomeno questa è automatica o è in via generalizzata: il controllo con i dichiarati effetti protettivi non trova applicazione in tal caso, e l’adozione dell’atto non è accompagnata da alcun ombrello nei confronti dell’azione di responsabilità. Anzi, l’art. 23, comma 5, Legge 289/2002, specificamente, impone alle amministrazioni pubbliche l’obbligo di trasmettere i provvedimenti di riconoscimento di debito (debiti fuori bilancio) alla competente procura della Corte dei conti, oltre che agli altri organi di controllo, scoraggiando il ricorso a questo istituto per evitare le normali procedure di spesa, e vigilando da parte della Corte dei conti sulla correttezza e l’illiceità delle procedure.
La inconsistenza del mito del nuovo controllo previsto dal ddl come momento esonerativo a latitudine universale
Vi è quindi una narrazione – che parte da questa ricognizione quanto meno imprecisa- secondo cui il controllo – nel ddl- costituirebbe il momento cruciale ed esonerativo “universale”, capace di garantire – sempre e comunque- serenità tanto ai decisori politici quanto ai funzionari. Il mito da sfatare è, pertanto, quello di un controllo inteso come garanzia generalizzata di esonero, quasi che ogni atto amministrativo, di qualunque amministrazione e di qualunque soggetto ivi previsto, fosse “coperto” da una rete preventiva idonea a sterilizzare le responsabilità soggettive. Si tratta di un’illusione, poiché lo stesso ddl tipizza , come detto in precedenza, il perimetro dello scrutinio di legittimità della Corte dei conti: il nuovo art. 3, comma 1-ter, L. 20/1994 limita il controllo preventivo ai provvedimenti di aggiudicazione (anche provvisori) e ai provvedimenti conclusivi delle procedure di affidamento relativi a contratti PNRR/PNC, con termini perentori e con l’effetto, in caso di inerzia, della registrazione “a tutti gli effetti, compresa l’esclusione di responsabilità” (cfr. anche art. 1, lett. b, n. 3 sul comma 2). Al di fuori di tale ambito (PNRR/PNC e, facoltativamente, la norma contempla atti similari oltre soglia se gli enti deliberano di sottoporli: commi 1-quater–1-sexies).
L’ordinario controllo preventivo non si estende – per scendere all’esempio proposto- alle delibere come i debiti fuori bilancio o, per fare un altro esempio, alle alienazioni o permute patrimoniali, che come centinaia di altri fattispecie normative di atti, sia collegiali che monocratici, rimangono per cosi dire “scoperte” del controllo e del suo “nuovo” effetto esimente. Nemmeno l’ordinamento precedente delineava un controllo per cosi dire universale: prima della legge n. 142/1990 sulle autonomie locali , e ancor meno dopo il varo della legge stessa e, via via passando per la modifica voluta dalla legge 127/1997 , fino alla riforma del Titolo V, i controlli preventivi riguardavano solo una parte degli atti deliberativi degli organi collegiali, e non ,ad esempio, gli atti monocratici. Ne deriva, conseguentemente, che l’idea di un ombrello capillare ed esonerativo non appartiene né al passato né al presente dell’ordinamento, ed è del tutto impraticabile, non essendo certo concepibile sul piano operativo – come unanimemente affermato (1)- un invio di migliaia e migliaia di atti alla Corte dei conti per il controllo.
(1) Cfr ad esempio , per le conseguenze sui controlli finanziari a seguito della pervasività e aumento dei controlli preventivi di legittimità ,G. Rivosecchi, Il bastone e la carota. Appunti su una proposta di riforma della Corte dei conti, in «Osservatorio costituzionale» (AIC), fasc. 4/2024, 6 agosto 2024, ISSN 2283-7515, pp. 5–38.
L’irresponsabilità politica quale privilegio di casta
Ancora più insidiosa-e significativamente contraddittorio rispetto all’intento dichiarato di fugare la paura della firma– è la disposizione che presume la buona fede dei titolari degli organi politici quando gli atti da essi adottati, nell’esercizio delle competenze proprie, siano proposti, vistati o sottoscritti dai responsabili degli uffici tecnici o amministrativi in assenza di pareri formali contrari: si tratta dell’integrazione dell’art. 1, comma 1-ter, L. 20/1994, ultimo periodo, introdotta dall’art. 1, lett. a, n. 4 del DDL S. 1457.
Nell’esempio proposto, il meccanismo finisce per conferire valenza esonerativa in favore degli organi politici, ch pure hanno assunto la decisione, traslando il baricentro della responsabilità sui pareri tecnici dei dirigenti e dei revisori.
La logica sottesa alla riforma introduce, pertanto, una distinzione di rango tra gli attori pubblici: da un lato, i politici, immunizzati ex lege per presunzione di buona fede in presenza di visti/istruttorie tecniche non contrastate; dall’altro, i funzionari, ipersollecitati a garantire, con la propria firma, scelte d’indirizzo sottratte a responsabilità. Un tale assetto, lungi dal potersi considerare neutro rispetto all’architettura costituzionale della responsabilità, si colloca -quantomeno in termini di seria frizione sistemica e, verosimilmente, di contrasto- con l’art. 28 Cost. e con la ricostruzione offerta dalla Corte costituzionale (sent. n. 132/2024), la quale, qualifica la responsabilità amministrativa in chiave ripristinatoria e ancorandola a un criterio causale:
il sistema – introducendo una selettività soggettiva difficilmente conciliabile con l’eguaglianza sostanziale (art. 3 Cost.) suscettibile altresì di alterare il nesso di responsabilizzazione che presidia il buon andamento (art. 97 Cost.) – si predispone a produrre asimmetrie e zone d’immunità incompatibili con la logica unitaria del controllo e della riparazione del pregiudizio erariale.
Il mito della paura della firma quale alibi riformatore
Non c’è dubbio, quindi, che sul medesimo sfondo si staglia il mito della paura della firma quale alibi riformatore: si enfatizza il collegamento tra visto/parere e una zona d’immunità, ma – al di là della valenza solo sociologica dell’immagine di un generale ombrello protettivo, limitato in realtà unicamente ai casi stabiliti dalla norma – l’effetto reale è quello di moltiplicare le responsabilità in capo ai soli organi tecnici. Basti pensare, ancora, ancora una volta agli atti formalmente adottati dagli organi politici – e per scendere nel concreto agli esempi proposti (tra i tanti) di riconoscimento di debiti fuori bilancio o alienazioni/permute patrimoniali – nei quali la responsabilità del decisore politico è neutralizzata dalla presunzione di buona fede (art. 1, comma 1-ter, ult. periodo, L. 20/1994, come novellato), mentre quella dei dirigenti e dei revisori, chiamati a rilasciare i pareri, si amplifica sino a divenire esclusiva. La riforma, che avrebbe dovuto liberare l’amministrazione dal vincolo paralizzante dell’azzardo reputazionale, accrescerà con ogni probabilità la riluttanza a sottoscrivere da parte degli organi burocratici, alimentando la stessa paura della firma che intendeva estinguere: moltiplicando nella migliore delle ipotesi, le fattispecie di aggravamento del procedimento con intuibile conseguente diluzione dei tempi del procedimento.
Un nuovo doppio binario a giustizia a due facce: immunità per i vertici, iper-responsabilità per i funzionari
Il risultato finale è la configurazione di un sistema che ricorda, per molti versi, l’assetto dell’Ancien Régime: nell’ordine antico, la giustizia era un intreccio di giurisdizioni e statuti sovrapposti, ove le élite godevano di privilegi-anche giurisdizionali- mentre i ceti non privilegiati erano sottoposti alla piena cogenza dell’ordinario. Così, “dalla Corte dei conti alla Corte dei non Conti” indica, in chiave descrittiva, la creazione ex lege di una categoria di immuni (i “ Conti”) : per i vertici politici opera una presunzione di buona fede (art. 1, comma 1-ter, ult. periodo, L. 20/1994, come novellato), mentre i funzionari e i revisori – i non Conti- rimangono integralmente esposti alla giurisdizione della Corte dei conti. Si produce, conseguentemente, una giustizia a doppio binario: irresponsabilità politica a monte e iper-responsabilità tecnica a valle, con irrigidimento dei processi decisionali e alimentazione proprio di quell’inerzia che la riforma proclamava di voler estinguere.
Al di là delle considerazioni testé svolte -utili, già di per sé, a misurare le frizioni con l’art. 3 Cost.- gli effetti costituzionali sono duplici: (i) si altera la funzione di controllo di cui all’art. 100 Cost., poiché il controllo diviene cornice legittimante di scelte non responsabilizzabili; (ii) si comprime la giurisdizione contabile ex art. 103, co. 2, Cost., giacché porzioni significative della catena causale sono sottratte all’accertamento ripristinatorio, con vulnus evidente agli artt. 28 e 97 Cost., oltre che con la funzione riparatoria della responsabilità amministrativa ribadita dalla Corte costituzionale (sent. n. 132/2024).
Gli esempi richiamati -e se ne potrebbero proporre a decine- smentiscono inoltre i presupposti della riforma: l’idea -proclamata come rimedio- del ripristino di un controllo preventivo di legittimità intrecciato inscindibilmente con effetti esonerativi in ambito giurisdizionale è contraddetta dal fatto che esso non è universale . Non è quindi previsto – contrariamente alla narrazione proposta- alcun ombrello protettivo generalizzato di controlli preventivi e pareri esonerativi bensì solo nei casi tipizzati: (art. 1, lett. b, n. 2-3, commi 1-ter–1-sexies; art. 2): per rimanere all’esempio, nel riconoscimento dei debiti fuori bilancio, la deliberazione compete al consiglio comunale, così come nelle alienazioni/permute patrimoniali, ma non è previsto in nessun modo un controllo preventivo di legittimità.
In secondo luogo, per effetto della presunzione di buona fede in capo all’organo politico (art. 1, comma 1-ter, ult. periodo), la responsabilità si scarica sui funzionari che hanno attestato profili istruttori e regolarità contabile(art 49 Tuel e art 239 Tuel). Ne consegue che, lungi dal ridurre la paura della firma, l’assetto proposto e delineato dal legislatore della riforma, partendo dall’affermazione fondata, come si è visto, su presupposti più sociologici che giuridici, ritenendo erroneamente cioè che tutti gli atti potessero essere sottoposti allo scrutinio della Corte, la enfatizza, trasformando la sottoscrizione da parte dell’organo tecnico nell’unico bersaglio utile della giurisdizione. Occorre prestare attenzione quindi agli slogan e guardare invece con grande attenzione la realtà normativa, oggettivamente diversa –e lo si è dimostrato- da come viene rappresentata. Sicché, conviene interrogarsi sulla reale latitudine oggettiva dell’ombrello protettivo, nonché sulla latitudine soggettiva della paura della firma e, in definitiva, sulla autentica finalità di una riforma la cui narrazione, a ben vedere, non coincide con i suoi effetti sistemici.
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