Sui servizi torna il freno a nuove società partecipate

Fonte: Il Sole 24 Ore

Gli effetti del referendum sui servizi pubblici locali non vanno tutti nella direzione di dare mano libera ai Comuni nè di un moltiplicarsi delle società partecipate. Anzi, l’abrogazione della norma rischia di costringere più di un comune alla messa in liquidazione delle sue controllate e comporta il divieto di aprirne nuove. Infatti, il venire meno dell’articolo 23 bis ha l’effetto di ampliare la portata dell’articolo 14, comma 32 del Dl 78/2010, che vieta ai comuni sotto i 30mila abitanti di costituire nuove società (e ne ammette una per i comuni da 30 a 50mila abitanti). La norma si muove in due direzioni. Anzitutto vieta da subito la costituzione di nuove società da parte dei comuni minori, a meno che questi non riescano a costituire una società a cui partecipino comuni che messi insieme non superino la soglia di popolazione prevista e nelle quali le quote siano paritetiche o proporzionali agli abitanti (per evitare l’escamotage di costituire società al 99% di un ente soltanto). Ancora, costringe questi comuni a chiudere le partecipate che alla data del 31 dicembre 2013 non siano collocate con continuità nell’area del l’utile, e quindi a condizione che abbiano avuto utili negli ultimi tre bilanci e, soprattutto, che non sia mai stato ridotto il capitale (anche se poi ricostituito) «negli esercizi precedenti». Fino ad oggi l’orientamento generale era stato quello di ritenere che i servizi a rilevanza economica non rientrassero in questa previsione di legge, perché soggette a una disciplina speciale (Sezione Puglia, del. 56/Par/2010) che in alcuni casi obbligava alla loro istituzione (Sezione Lombardia, del. Lombardia/861/2010/par). Pertanto, “vittime” di questa norma sembravano soltanto le società strumentali previste dall’articolo 14 del decreto Bersani, in quanto frutto di una scelta dell’ente locale. Venute meno oggi le «forme obbligatorie di gestione» previste dall’articolo 23 bis, è però possibile la gestione in economia e, con essa, diventa applicabile il vincolo previsto dal Dl 78/2010. Si preannunciano perciò temporali per quelle società di servizi pubblici che non godono di una disciplina speciale (come accade per acqua, , rifiuti, gas, trasporto pubblico, ecc.). Come effetto indotto, forse, avremo la crescita dimensionale di alcune società altrimenti a rischio chiusura, evitabile se i piccoli comuni si coalizzano. Accanto a questo risultato se ne avrà probabilmente un secondo, quello cioè di stimolare l’immaginazione di chi vuole eludere la norma. Ma la strada della trasformazione eterogenea in aziende speciali è preclusa per legge. Infatti, resta a tutti gli effetti in vigore il comma 8 dell’articolo 35 della Finanziaria 2002 (legge 448/2001) che istituisce l’obbligo di gestire i servizi pubblici esternalizzati, di cui al comma 1 dell’articolo 113 del Tuel (anch’esso sopravvissuto alla mannaia del 23 bis), solo nella forma di società di capitali, obbligando alla trasformazione delle aziende speciali ancora esistenti. Se però il legislatore vuole davvero ridurre il numero di società degli enti locali, dovrà occuparsi anche di rendere le loro liquidazioni concretamente possibili. È necessario introdurre delle agevolazioni fiscali sui trasferimenti degli immobili e, soprattutto, pensare a qualche forma di neutralizzazione degli effetti di tali operazioni ai fini del patto, almeno per quanto riguarda indebitamento e personale. Solo così avremo l’effetto di una concreta riduzione delle società in essere. Altrimenti si assisterà a costose elusioni, che rischiano di diventare ancora più ardite alla luce delle previste modifiche che la manovra in via di approvazione prevede di fare al comma 7 dell’articolo 76 del Dl 112/2008 in materia di computo del tetto alle spese di personale negli enti locali.

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