Semplificazioni in salita se non cambia il «Titolo V»

Fonte: Il Sole 24 Ore

Se dal 1997 a oggi l’Italia ha varato quasi ogni anno una legge di semplificazione ma continua a occupare lo stesso i bassifondi delle classifiche internazionali per la facilità di fare impresa, la colpa è anche del cattivo titolo V. E delle «innumerevoli competenze concorrenti regionali che, in un assurdo federalismo di complicazione, possano bloccare le riforme statali». Le imprese lo sostengono da tempo ed è per questo che invocano un’ampia riscrittura dell’articolo 117 della Costituzione. Ma anche il Governo Letta la pensa così, come conferma il dossier che il ministero delle Riforme ha consegnato lunedì scorso ai 35 saggi al lavoro sulle riforme istituzionali e che sarà oggetto domani di una nuova riunione ad hoc.

Il documento porta la firma del capo dipartimento Luca Antonini (che è anche presidente della Commissione paritetica per il federalismo fiscale) e si articola in due parti: un elenco con una trentina di domande che sono state utilizzate per avviare la discussione di lunedì scorso e una scheda che ripercorre i tentativi (falliti) di riforma del titolo V degli ultimi 10 anni e prova a spiegare perché la sua manutenzione non è più rinviabile.

Citando a tal proposito un paio di paradossi del Belpaese. Come il fatto che «il più piccolo comune italiano (Pedesina con 36 abitanti) ha le stesse funzioni fondamentali di Milano (circa 1,4 milioni di abitanti), ma né questa legislatura, né quella precedente sono riuscite a portare ad approvazione la Carta delle Autonomie, che avrebbe dovuto definire meglio “chi fa che cosa”». Oppure che da noi «il costo per un km di rete ferroviaria ha raggiunto 50 milioni di euro, contro i 13 della Francia e i 15 della Spagna».

Da qui a invocare un nuovo riparto delle competenze che riporti le grandi rete di trasporto sotto il controllo esclusivo dello Stato il passo è breve. Magari insieme alla distribuzione dell’energia elettrica, ai porti, agli aeroporti, alle infrastrutture e alle professioni. Nell’ottica di asciugare al massimo l’elenco delle materie concorrenti e introdurre una clausola di supremazia statale che tuteli l’interesse nazionale o l’unità giuridica ed economica del Paese. Ferma restando l’intenzione di trasformare il Senato in una Camera delle autonomie capace di compensare le istanze del centro con quelle della periferia.

In realtà l’auspicio del dossier è anche più ambizioso. La speranza del ministero delle Riforme è che il lavoro dei 35 esperti porti alla redazione di una proposta più corposa di quelle contenute nel Ddl con la devolution leghista del 2005 e in quello presentato nell’ottobre scorso dall’allora ministro della Pa, Filippo Patroni Griffi. E che contenga ad esempio la costituzionalizzazione del meccanismo dei costi e fabbisogni standard previsto dalla legge delega sul federalismo del 2009 e ancora lontano dal trovare una piena applicazione nel nostro ordinamento.

Come detto, di tutto ciò si è cominciato a discutere lunedì scorso e si proseguirà nella seduta di domani.

Quando andrà approfondita sia l’esigenza di sciogliere il «nodo gordiano» tra regionalismo e municipalismo che la riforma del 2001 ha reso più stringente. Sia l’opportunità di ripensare il sistema di autonomie speciali che – si legge nel rapporto – ha prodotto un divario, soprattutto finanziario, con le Regioni ordinarie «difficilmente giustificabile». Senza dimenticare gli altri due temi citati dallo stesso premier Enrico Letta nel suo primo discorso alle Camere: l’accorpamento dei piccoli Comuni e l’abolizione delle Province. E su quest’ultimo punto un’indicazione potrebbe arrivare dopodomani dalla Consulta che deciderà sul ricorso di 8 amministrazioni regionali contro l’articolo 23 del decreto legge sulla spending review che le trasformava in organi di secondo livello (cioè nominati dai consigli comunali) e privi di giunta.

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