Tra Stato e Regioni ricorsi al top

Fonte: Il Sole 24 Ore

Nell’attesa di capire se l’affare Berlusconi arriverà sui tavoli della Corte costituzionale sotto forma di ricorso per l’interpretazione della norma contenuta nella legge anticorruzione (la 190/2012) con la quale è stata introdotta l’incandidabilità a parlamentare di chi ha subìto una condanna superiore a due anni di reclusione, la Consulta ha comunque il suo bel daffare.

A dimostrarlo basta il contenzioso tra lo Stato e le Regioni, che negli ultimi anni ha registrato un aumento significativo. In particolare, tra il 2010 e il 2011 le cause sono cresciute di quasi il 36% e l’anno scorso hanno continuato a lievitare (+11%), raggiungendo con quasi 200 atti di promuovimento, il picco massimo di litigiosità dal varo, dodici anni fa, della riforma del Titolo V della Costituzione, che ha ridefinito le competenze legislative di centro e periferia.

E questo nonostante il tema del federalismo – che aveva fornito ossigeno ai contrasti tra Roma e le autonomie – sia scomparso dai tavoli della politica. Lo scontro sui poteri si è ora trasferito su altri versanti. A mantenere viva la differenza di vedute tra Stato e Regioni ci hanno, infatti, pensato le manovre degli ultimi anni, che hanno cercato di contenere le spese dell’apparato pubblico. Soprattutto gli interventi di spending review e di taglio ai costi della politica hanno indotto le Regioni a puntare più di una volta i piedi rivendicando la propria autonomia finanziaria e sottoporre il loro disappunto davanti ai giudici costituzionali.

Già la manovra di Ferragosto di due anni fa varata dal Governo Berlusconi (il Dl 138/2011) aveva generato decine di ricorsi alla Consulta da parte delle Regioni, contrarie al modo in cui era stato pensato lo sfoltimento dei consiglieri regionali. In quell’occasione fu il Governo centrale ad avere la meglio, mentre così non è stato – per rimanere sempre alla questione dei costi della politica – con la causa per la riorganizzazione e poi la cancellazione delle province, innescata da due riforme Monti (il decreto legge salva-Italia e quello sulla spending review): in questo caso la Corte, con una sentenza di luglio scorso, ha dato ragione alle amministrazioni regionali. Salvando, però, al contempo la nuova geografia dei tribunalini, sempre prevista dal Governo Monti. Così come la Consulta ha mantenuto l’impianto del decreto legge 174 del 2012 (sempre del precedente Esecutivo), che imprimeva un giro di vite sui bilanci di Regioni ed enti locali.

Una partita di oltre cento ricorsi all’anno che ha assegnato punti a una parte e all’altra. Come dimostrano i numeri generali, che assegnano una leggera prevalenza alle cause intentate dallo Stato: quelle aperte da Roma (quasi 200 in più rispetto al contenzioso generato dalle autonomie), infatti, hanno trovato il favore dei giudici nel 56% dei casi, mentre i ricorsi delle Regioni sono riusciti a far dichiarare l’illegittimità delle norme impugnate il 50% delle volte.

La Regione più combattiva continua a essere la Toscana, con 81 ricorsi in tutto, seguita dalla Provincia di Trento e dall’Emilia Romagna. Le amministrazioni che però hanno ottenuto più volte “giustizia” dai giudici delle leggi sono state Molise e Lazio, che pur con un numero minore di ricorsi rispetto ad altre, hanno avuto ragione più di due volte su tre.

Le leggi regionali più tartassate dallo Stato sono state invece quelle di Abruzzo e Puglia con, rispettivamente, 61 e 75 impugnazioni da parte della Presidenza del consiglio. La più censurata è stata invece la Campania, nei confronti della quale la Consulta ha riconosciuto valide le argomentazioni del Governo nell’80% dei casi.

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