Taglio Irap da 6,5 miliardi, via tasse per 18

Fonte: Il Sole 24 Ore

La Legge di stabilità sale a «30 miliardi». Fino a poco tempo fa un simile annuncio sarebbe stato foriero di cattivi presagi. Matteo Renzi invece ne fa uno spot a sostegno della politica economica del Governo per rilanciare crescita e occupazione con due interventi choc: 1) per tre anni i contributi di tutti i nuovi assunti a tempo indeterminato saranno a carico dello Stato; 2) a partire dal 2015 verrà cancellata dall’Irap la componente lavoro. Misure che, assieme alla conferma del bonus degli 80 euro, all’allentamento del patto di stabilità interno e ferma restando la determinazione a procedere a un accordo con le banche («nelle prossime ore») per l’anticipo facoltativo del Tfr in busta paga, dovrebbero contribuire a ribaltare la spirale recessiva confermata anche ieri da Istat e Bankitalia. Già perché stavolta non ci sarà «un centesimo di tasse in più». E per dimostrarlo il premier si serve ancora una volta del numero 18, che «non è solo l’articolo dello Statuto dei lavoratori» ma corrisponde anche al taglio delle tasse attuato dal governo con la finanziaria dello scorso anno e con quella che sarà approvata domani dal Consiglio dei ministri: «Il maggiore di sempre», rivendica Renzi che, pur ribadendo di voler rispettare il vincolo «stupido» del 3%, non sembra intenzionato a farsi intimorire da chi a Bruxelles ha già informalmente fatto sapere di non vedere di buon occhio il rinvio del pareggio di bilancio strutturale.

Il premier sceglie non a caso il palcoscenico dell’assemblea di Confindustria Bergamo, nella fabbrica Persico a Nembro, per annunciare la rivoluzione. Fuori lo attendono un gruppo di operai della Fiom al grido di «buffone». Lo stesso accadrà un’ora dopo, quando varcherà il cancello della Dalmine mentre da Roma gli arriva l’eco dell’ennesimo attacco di Susanna Camusso. La leader della Cgil conferma la manifestazione del 25 ottobre a Piazza San Giovanni «per salvare il Paese» e rilancia lo «sciopero generale».

Renzi chiede agli imprenditori di fare la loro parte, lanciando loro una vera e propria «sfida», così almeno la definisce il premier. Il governo mette a disposizione 6,5 miliardi per l’eliminazione della componente lavoro dall’Irap, «come Confindustria nella persona di Giorgio Squinzi e dei suoi predecessori ci chiede da tempo di fare». Un altro miliardo servirà a «pagare» la decontribuzione triennale dei nuovi assunti. «A proposito dell’articolo 18, faremo una cosa semplice: coloro i quali nel 2015 assumeranno giovani e meno giovani a tempo indeterminato avranno la possibilità di non pagare i contributi e lo Stato si sostituirà all’imprenditore», spiega Renzi. Ci sono poi i 10 miliardi per rendere «permanente» il bonus degli 80 euro e i 500 milioni per aumentare le detrazioni fiscali delle famiglie parallelamente al piano per consentire ai lavoratori di avere in busta paga il Tfr.

Ma la «sfida» non è solo nei confronti degli imprenditori. La scelta di incentivare le assunzioni a tempo indeterminato è salutata con favore da Cesare Damiano, presidente della Commissione Lavoro e tra i più critici nei confronti del Jobs act, così come da altri esponenti della minoranza del Pd che ora dovranno decidere se andare in piazza con Landini e Camusso, come ha già confermato Fassina, per quella che è stata definita dalla leader della Cgil «la prima iniziativa di contrasto vero a questo governo» oppure schierarsi dalla parte del premier. Tertium non datur. Il premier, come è suo solito, preferisce giocare all’attacco. La scelta di una manovra da «30 miliardi» è una prova di forza anche nei confronti dell’Europa davanti alla quale si presenterà con una spending review record da 16 miliardi per rendere credibile la scelta di finanziare più di 11 miliardi di misure espansive in deficit.

«Siamo in un momento delicato» e «le difficoltà vanno affrontate senza far finta di sottovalutarle» ma senza mai dimenticare che l’Italia è «una grande potenza industriale» che deve «recuperare fiducia nel futuro», non perché lo dice «un pazzarello», ma perché «i numeri dicono che ce la possiamo fare». E allora, è l’appello del premier, se si «lasciano da parte le divisioni di parte, ideologiche, culturali», se si «smette di litigare» e si «dà tutti una mano all’Italia», si arriverà «all’ultimo giorno di questa legislatura con un Paese trasformato» dalle riforme. Non solo quella del lavoro o quella fiscale. La tragedia di Genova è l’ennesima conferma che non si può andare avanti con «l’insopportabile scaricabarile», con un sistema in cui «lavorano più i giudici che i manovali». Così come va spazzata via quella cultura «borbonico-napoleonica» che consente alle sovrintendenze di bloccare opere che «non sono la cupola del Brunelleschi».

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