Sul tavolo il nodo del Comune che «paga» lo Stato

Fonte: Il Sole 24 Ore

Il Comune che, in quanto proprietario di immobili, deve pagare l’Imu allo Stato. Il paradosso, non da poco per l’imposta «municipale» per eccellenza, è figlio di un incrocio sfortunato tra le varie regole che hanno anticipato e ristrutturato l’Imu “originale” per farne un perno del salvataggio dei conti pubblici.
La spinta decisiva all’Imu, arrivata con il decreto «salva-Italia» che l’ha gonfiata fino a farle superare i 21 miliardi di gettito all’anno, ha agito da forbice sugli sconti (per esempio le assimilazioni all’abitazione principale) e le esenzioni previste dalla vecchia disciplina sull’Ici. Tra le previsioni saltate c’è anche quella (articolo 4 del Dlgs 504/1992) che esentava dall’imposta gli immobili comunali. Oggi, quindi, sarebbe «Imufree» solo il mattone pubblico utilizzato per «fini istituzionali», perché ci ha pensato il decreto legislativo sul federalismo municipale (articolo 9, comma 8 del Dlgs 23/2011) dall’ente proprietario, mentre tutto il resto dovrebbe andare alla cassa per il pagamento. Nel caso dei Comuni, il sindaco dovrebbe così versare allo Stato la quota erariale dell’Imu, che è pari al 50% dell’imposta al lordo di sconti o detrazioni.
Una via interpretativa per evitare il paradosso ci sarebbe, perché le regole tributarie non prevedono versamenti quando a pagare l’imposta è lo stesso ente che la incassa (identità fra «soggetto impositore» e«soggetto passivo»). Il Comune, insomma, non potrebbe pagare a se stesso, e siccome il versamento della quota erariale è per legge «contestuale» a quello della fetta comunale, nemmeno l’assegno allo Stato potrebbe partire. Ma vista l’entità del problema (secondo le prime stime a campione vale 200 milioni solo nei Comuni), che oltre ai sindaci coinvolge anche Province e Regioni che posseggono immobili al di fuori del proprio territorio, un argine più solido rispetto alla complicata via ermeneutica sarebbe utile, e il “correttivo” su cui sta lavorando il Governo potrebbe essere una buona occasione. Anche perché tra gli immobili che con il cambio di regole hanno visto perdere l’esenzione ci sono anche quelli dell’edilizia residenziale pubblica: la loro esclusione dall’imposta si era già affacciata nelle bozze del decreto sulle liberalizzazioni, ma nonè sopravvissuta nel testo finale pubblicato in «Gazzetta Ufficiale»: una partita, questa, che secondo l’associazione dei Comuni vale almeno 150 milioni all’anno, e rischia di caricare di costi aggiuntivi l’attività”sociale” degli enti locali.
Nel decreto sulle liberalizzazioni, invece, è spuntata un possibile super-sconto per gli immobili invenduti di proprietà delle società costruttrici. Il decreto, per alleviare il peso fiscale su imprese colpite dalla crisi dell’edilizia, permette ai Comuni di far scendere l’aliquota fino allo 0,38% per i primi tre anni dalla costruzione.
La quota erariale, però, non ne tiene conto: per i Comuni si tratterebbe quindi di rinunciare completamente al proprio gettito, e versare tutto ciò che rimane allo Stato. Una scelta difficile da praticare, in tempi di finanza locale col fiatone.
In realtà, con i primi lavori sui bilanci locali è l’intero meccanismo della quota erariale a essere finito nel mirino dei Comuni: la fetta statale, che scatta sugli immobili diversi dalle abitazioni principali, è sempre pari alla metà del gettito prodotto dall’aliquota di base (7,6 per mille): in questo quadro offrire sconti ad alcune categorie, come gli immobili in affitto (soprattutto quelli a canone concordato) che incontrano un superaumento con il passaggio dall’Ici all’Imu, significherebbe versare allo Stato il 60-80% del gettito prodotto in questi casi dall’imposta. Per evitare di veder di fatto dimezzato lo spazio per le scelte autonome sulle aliquote, i sindaci hanno proposto uno scambio audace: rinuncia al fondo di riequilibrio in cambio della possibilità di incassare tutta l’Imu. L’ipotesi è già arrivata sui tavoli tecnici di confronto fra Comuni e Governo, ma rappresenta un radicale cambio di rotta difficile da inserire in corsa in un decreto.

I PUNTI CONTROVERSI

Immobili degli enti pubblici
Le regole dell’Imu non prevedono più l’esenzione per gli immobili comunali. L’unica esenzione che sopravvive è riservata agli immobili pubblici impiegati esclusivamente per «fini istituzionali» all’interno del territorio dell’ente proprietario. In questo quadro, il Comune potrebbe vedersi costretto a pagare la quota statale dell’Imu, pari al 50 per cento del gettito calcolato con aliquota di base (7,6 per mille) sui propri immobili. Il riferimento al territorio dell’ente proprietario impone il versamento anche agli immobili situati fuori dai confini dell’ente (è per esempio il caso delle sedi romane delle Regioni)

Camere di commercio
Tra le previsioni che non sono sopravvissute nel passaggio dalla disciplina dell’Ici a quella dell’Imu c’è anche l’esenzione per gli immobili posseduti dalle Camere di commercio

Edilizia residenziale pubblica
È saltata l’esenzione per gli immobili di edilizia residenziale pubblica. L’ipotesi era spuntata nelle bozze del decreto sulle liberalizzazioni, ma non è rimasta nel testo finale

Società costruttrici
Il decreto sulle liberalizzazioni prevede la possibilità che i Comuni abbattano fino al 3,8 per mille l’aliquota sugli immobili invenduti rimasti nel portafoglio delle imprese costruttrici. L’agevolazione è limitata ai primi tre anni successivi alla realizzazione dell’immobile. La quota statale dell’Imu, però, non tiene conto dell’eventuale detrazione, per cui la riduzione dell’aliquota si tradurrebbe per il Comune in una perdita totale del gettito (il 3,8 per mille finirebbe interamente allo Stato)

Rurali
La disciplina Imu ha “risolto” i nodi interpretativi sugli immobili rurali strumentali all’attività agricola, sancendo la loro imponibilità all’Imu con aliquota di riferimento al 7,6 per mille.

Immobili ecclesiastici
Il premier ha dichiarato nei giorni scorsi che l’esame sul punto è «avanzato»

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