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Il congedo straordinario non comunicato al datore di lavoro va calcolato nel periodo di comporto
Sintesi della sentenza della Corte di Cassazione del 13 settembre 2019, n. 22928

di CARMELO BATTAGLIA e DOMENICO D’AGOSTINO (dal Sole 24 Ore) – In collaborazione con Mimesi s.r.l.

Con la sentenza n. 22928 del 13 settembre u.s., la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, ha precisato che, nel calcolo del periodo di comporto, va ricompreso il congedo straordinario, concesso dall’INPS per l’assistenza ad un familiare disabile, qualora il dipendente non abbia trasmesso, al datore di lavoro, la comunicazione di accoglimento della domanda. Il fatto La Corte d’Appello di Roma ha respinto la richiesta di un dipendente di Poste Italiane S.p.A., il quale aveva chiesto fosse accertata l’illegittimità del licenziamento intimatogli dalla società per intervenuto superamento del periodo di comporto. Infatti, in riforma della decisione del Tribunale di Roma, la Corte territoriale ha osservato come dal calcolo del periodo di comporto non potesse essere scomputato quello di congedo, richiesto per assistere un familiare portatore di grave disabilità ai sensi del Dlgs 151/2001, poiché, sebbene autorizzato dall’Inps, l’accoglimento della relativa istanza non era stato trasmesso al datore di lavoro, in contrasto con quanto previsto dall’art. 4, comma 2, Legge 53/2000 e dal relativo Regolamento attuativo (Dm 278/2000 della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per gli Affari Sociali), emanato ai sensi del successivo comma 4. Il lavoratore ha, pertanto, proposto ricorso per Cassazione, eccependo, anzitutto, come la Corte territoriale lo avesse, erroneamente, ritenuto obbligato a presentare al datore di lavoro l’istanza di congedo straordinario, quale requisito costitutivo per il suo stesso riconoscimento, in assenza di una norma di rango primario che imponesse detto obbligo.

Inoltre, la Corte aveva trascurato che, nel bilanciamento degli opposti interessi, la giurisprudenza attribuisce prevalenza alla salvaguardia del posto di lavoro, rispetto all’interesse datoriale alla tutela delle esigenze organizzative aziendali. Altresì, sulla base dell’assenza di prova della spedizione della comunicazione dell’Inps di accoglimento della domanda, aveva escluso che Poste Italiane S.p.A. avesse violato l’obbligo di buona fede nell’esecuzione del contratto, trasferendo in capo al lavoratore l’assolvimento del relativo onere. Le considerazioni della Corte La Cassazione ha ritenuto i motivi di ricorso infondati, anzitutto perché, ai sensi dell’art. 2, comma 4, del citato Dm 278/2000 (Regolamento recante disposizioni di attuazione dell’articolo 4, Legge 53/2000), il lavoratore, che intenda fruire del congedo straordinario, ha l’obbligo di presentare la richiesta al proprio datore di lavoro; quest’ultimo, infatti, entro dieci giorni dal ricevimento della stessa, è tenuto ad esaminarla e a comunicare l’esito della valutazione al dipendente. Inoltre, l’eventuale diniego, così come la concessione parziale o la proposta di rinvio, deve essere motivato dal datore di lavoro, che è anche tenuto a riesaminare la domanda, su richiesta del dipendente, nei successivi venti giorni. Detta disciplina rappresenta una forma di garanzia nel rapporto datore di lavoro-dipendente e pone un limite all’autonomia della contrattazione collettiva nel disciplinare i procedimenti relativi all’istituto del congedo straordinario, ai sensi dell’art. 2, comma 3, del citato Decreto. Inoltre, la circostanza che l’obbligo di richiedere il congedo straordinario al datore di lavoro sia formulata in una fonte non primaria, per la Cassazione non rileva, poiché il Regolamento costituisce, comunque, fonte di diritto oggettivo ed attuazione dell’art. 4 del menzionato Decreto Ministeriale, cui è stata delegata la definizione dei criteri per la fruizione dei congedi “per eventi e cause particolari”. Né rileva che il tipo di congedo oggetto di controversia sia espressamente previsto dall’art. 42, comma 5, Dlgs 151/2001 (così come modificato a seguito della sentenza della Corte cost. n. 203/2013), ovvero da una norma successiva alla Legge n. 53/2000, nonché al relativo Dm 278/2000, in virtù del fatto che anch’esso si inscrive nella più ampia categoria dei congedi “per eventi e cause particolari” e, di conseguenza, risulta assoggettato alla medesima regolamentazione attuativa. Secondo la Cassazione, anche a voler tralasciare detto presupposto, nello stesso art. 42, Dlgs 151/2001 è sostanzialmente previsto l’obbligo di presentazione, al datore di lavoro, dell’istanza: infatti, il comma 5-ter stabilisce che, durante il periodo di congedo, “il richiedente ha diritto a percepire un’indennità corrispondente all’ultima retribuzione, con riferimento alle voci fisse e continuative del trattamento”, che solo il datore di lavoro può determinare, ovviamente avendo piena conoscenza della richiesta; altresì, dimostrative del medesimo obbligo sono le previsioni che impongono al datore di lavoro di corrispondere l’indennità secondo le modalità previste per la corresponsione dei trattamenti economici di maternità e di  detrarre, nella denuncia contributiva, l’importo dell’indennità dall’ammontare dei contributi previdenziali dovuti all’Ente previdenziale competente. In perfetta coerenza con tale interpretazione, i successivi commi 5-quater e 5- quinquies – in tema di fruizione dei permessi non retribuiti e di determinazione delle ferie, della tredicesima mensilità e del trattamento di fine rapporto – presuppongono, entrambi, un ruolo attivo del datore di lavoro, con la conseguenza che egli deve, necessariamente, risultare destinatario della richiesta.

Con riferimento al caso sottoposto all’esame della Suprema Corte, ne deriva che la richiesta non solo deve essere trasmessa all’Inps, per le verifiche di competenza in quanto soggetto che subisce l’onere finanziario del congedo, ma anche al datore di lavoro, per l’adozione delle opportune misure organizzative, nonché per il compimento delle attività indicate nelle disposizioni richiamate. Gli ermellini hanno anche evidenziato come, avendo il lavoratore “coperto” il periodo oggetto di contestazione con certificati di malattia, un eventuale mutamento del titolo dell’assenza avrebbe richiesto la presentazione di un’istanza al datore di lavoro, prima della scadenza del periodo di comporto e al fine di sospenderne il decorso (Cass. n. 8834/2017); pertanto, il problema stesso della mancata comunicazione a Poste Italiane S.p.A., di cui era onere del lavoratore fornire prova, difetta, comunque, di decisività, per aver il dipendente giustificato la medesima assenza con certificati di malattia. In ultimo, i giudici hanno ricordato che, in tema di licenziamento per superamento del periodo di comporto, devono essere inclusi nel calcolo, oltre ai giorni festivi, anche quelli non lavorati, compresi nel periodo di malattia indicato dal certificato medico, poiché, in difetto di prova contraria il cui onere grava sul lavoratore, vige una presunzione di continuità dell’episodio morboso che ha determinato l’assenza dal lavoro ed il mancato adempimento della prestazione, precisando che la sola prova idonea a smentire tale presunzione è la dimostrazione dell’avvenuta ripresa dell’attività lavorativa (Cass. n. 13816/2000; cfr. Cass. n. 21385/2004).


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