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Identità green contro l’esodo dai territori
Perchè nelle ultime elezioni le terre fragili dei Piccoli Comuni hanno evidenziato la faglia tra le città e il contado

di ALDO BONOMI (dal Sole 24 Ore) – In collaborazione con Mimesi s.r.l.

Si parte dalle questioni grandi cercando di capire dalle piccole storie. Interroghiamoci sul perché, anche nelle ultime elezioni, le terre fragili dei Piccoli Comuni hanno evidenziato la faglia tra le città e il contado. Eppure le celebriamo con slogan ANCI a me cari, dal margine alla smart land, con ricerche Legambiente-Uncem-Symbola sulla realtà aumentata dei Piccoli Comuni. Sono 5.500 i Comuni con meno di 5mila abitanti nei quali vivono più di 10 milioni di persone che votano o si astengono. Sono polvere rispetto all’Italia delle 100 città. Polvere diffusa dell’abitare, basta guardare l’Italia dall’alto, e della tenuta di ciò che chiamiamo territorio. Fatto da città storiche, borghi, pezzi della nostra storia e paesi a rischio di spaesamento (Simone Weil) con la paura di rimanere senza Paese.

Per capire forse non basta solo uno sguardo economico. È utile, se vogliamo disegnare la smart land, osare e usare la parola chiave identità. Aggiungere al tema del reddito quello del senso del vivere al margine con coscienza di luogo. Li abbiamo costantemente rappresentati come luoghi di “civiltà dei vinti” e oggi li vogliamo, con un sol balzo, nell’ipermodernità della realtà aumentata. In mezzo si sono cristallizzati caratteri identitari e simbolici difensivi, alimentati da un’atavica diffidenza verso le innovazioni. Sono sempre venute da fuori, dalle company town con l’imporsi del modello industrial-fordista, con le città-distretto che hanno saputo intercettare localmente i benefici della fabbrica diffusa. Per arrivare all’oggi della conoscenza globale in rete che esalta le economie urbane e metropolitane dell’innovazione, le smart city o addirittura le città-stato. L’economia con i suoi processi e i suoi flussi agiva e scava sulle identità locali. Quotate alla politica dai movimenti e dai partiti localisti che agivano come sindacalisti della comunità perduta con tanto di nostalgia.

Nella contemporaneità della dialettica tra flussi globali cosmopoliti e identità dei luoghi, si è poi aggiunta la ritirata dello Stato, crocerossina assistenziale del margine e alla questione dell’identità si è affiancato il senso di abbandono. Nelle piccole realtà locali si è continuato a cercare legame sociale orientato verso una dimensione associativa culturale e solidaristica, le tante Pro Loco con la loro nostalgia e invenzione della tradizione, la Protezione civile per “tenere su” il territorio. Viene avanti timidamente nella coscienza di luogo, la percezione di essere non più margine, ma centro di un patrimonio al centro della questione ambientale. Di essere scheletro dell’arcipelago Italia. Ma per farsi arcipelago della cura del territorio, non basta un po’ di Croce Rossa per l’abbandono dell’abitare e di Protezione Civile per la manutenzione del territorio. Se n’era accorto anche il programma governativo Aree Interne che valutava la tenuta del margine. Abbiamo anche approvato, in attesa dei decreti attuativi, la legge sui piccoli comuni (Realacci) che partendo dalle identità locali, dal basso, presuppone servizi: poste, scuole, welfare, banda larga a proposito di realtà aumentata, e una fiscalità dolce per i territori del margine. Se n’è accorto anche Macron con la sua commissione per intercettare i cahiers de doléances dei Gilet Gialli. Siamo tutti un po’ in ritardo perché senza servizi pubblici di prossimità non c’è comunità.

Stando così le cose, le comunità si mobilitano per opporsi, si saldano per essere “insieme contro” più che diventare operatori di comunità che stanno “insieme per” lo sviluppo sostenibile e la green economy. Se le terre del margine non fanno green society c’è la ben nota defezione, l’esodo e l’abbandono. Non bastano, per compensare, un po’ di avanguardie agenti come i ritornanti con il loro motto radicale “via dalla città” (De Matteis). Guardando a questo piccolo mondo c’è da interrogarsi sul perché nell’arcipelago territoriale i verdi, come attore politico, non producano un’identità tale da fare di questi territori luoghi di condensa capaci di fare del paradigma ambientale un percorso socioeconomico diffuso. Mettendosi in mezzo alle due identità prevalenti: quella della nostalgia e del rinchiudersi “nell’identità contro” e quella prodotta dalle retoriche da “marketing da cittadini” che guardano al territorio per il fine settimana. Le questioni grandi da cui siamo partiti, le elezioni, ci fanno guardare in alto al successo del “capitano”. Le piccole storie fragili ci fanno capire quelli che non votano o votano seguendo il “capitano”.


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