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Tre mosse anti-caos nei dissesti locali
Le misure per la gestione degli Enti in dissesto e in pre-dissesto

di STEFANO CAMPOSTRINI e MARCELLO DEGNI (dal Sole 24 Ore) – In collaborazione con Mimesi s.r.l.

Le vicende di questi giorni hanno riportato alla ribalta la criticità finanziaria di alcuni grandi comuni italiani. Si tratta della punta di un iceberg molto più grande, che la ricerca sui comuni italiani attivata da Ca’ Foscari nel 2017 ha cercato di mettere a fuoco, anche grazie all’informatizzazione di tutta la documentazione del ministero dell’Interno.

Il problema è complesso. Per questo serve un’analisi approfondita, per consentire al decisore politico di scegliere con razionalità, superando le semplificazioni di queste ore. La legislazione non prevede che un Comune possa fallire. Sono state introdotte due misure di gestione straordinaria: il dissesto nel 1989 e il “pre-dissesto” nel 2012. Gli effetti di queste misure sono pesanti per i cittadini, che si vedono ad esempio costretti a pagare le aliquote massime dei tributi locali); e per gli amministratori, che faticano a uscire da una spirale di fornitori sempre più cari (perché devono mettere in conto il rischio di debiti insoluti o pagati con ritardo) e cittadini sfiduciati (e recalcitranti nel pagare le tasse locali). Il numero dei Comuni che hanno attivato le procedure di dissesto e riequilibrio nel periodo 1989 – 2018 mostra con evidenza, nel suo andamento a «U», l’impatto della grande crisi che ha prodotto, dal 2008 in poi, la ripresa del fenomeno della criticità finanziaria che non accenna a scendere. L’articolazione regionale mostra una concentrazione territoriale del fenomeno. Se la media italiana è di circa il 10% di comuni che hanno visto nel periodo situazioni di criticità ci sono regioni (soprattutto al Nord) che non ne hanno nessuno e casi come la Calabria, Campania e Sicilia, che ne hanno più di un terzo. L’andamento è crescente, in termini percentuali, al crescere della popolazione.
Secondo. Se i Comuni non possono fallire, oltre che regolare gli squilibri finanziari è necessaria la creazione di presupposti per una governance equilibrata, che significa protezione delle risorse e individuazione di nuovi modelli capaci di coinvolgere le energie del territorio per creare opportunità di sviluppo. Nella nuova governance andrebbero comprese garanzia di autonomia impositiva, capacità di riscossione delle entrate e crescita delle competenze (sblocco del turn over, formazione permanente, rescaling dimensionale).
Terzo. Non si può pensare a procedure di risanamento dai contorni incerti e dall’orizzonte temporale indeterminato. Violare platealmente le norme costituzionali su equilibrio e copertura, scardinare il rapporto tra governanti e governati sulle politiche relative alle entrate e alle spese, scaricare sulle generazioni future un onere pesante, come è accaduto in questi anni con una legislazione rapsodica, non è sostenibile. Si travolge, come recentemente ribadito dalla Corte Costituzionale, la funzione di bene pubblico del bilancio.
Quarto. L’attuale quadro normativo che disciplina la criticità finanziaria (Titolo VIII del Tuel) è inadeguato se produce “anomalie” per il 10% dei Comuni.

Una possibile proposta di riforma va in tre sensi: rafforzare le capacità dei Comuni (con attività formative e di sostegno costante), modificare la disciplina del dissesto, favorendo meccanismi più efficaci di controllo e risanamento che assicurino tra l’altro tempi certi (per i debitori, gli amministratori e i cittadini) e affiancare un monitoraggio costante delle finanze. L’analisi dei dati ha messo a fuoco, in modo analitico, i problemi, ma anche le possibili soluzioni. È da questa cassetta degli attrezzi che il decisore potrebbe attingere, per migliorare le performance dei Comuni italiani, assicurando stabilità, sostenibilità e equità: oggi lontane chimere.


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