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Il debito delle regioni
Federalismo, il cattivo esempio tedesco

Fonte: Corriere della Sera

La relazione sul federalismo fiscale approvata dal governo la scorsa settimana ci avvicina all’obiettivo di trasformare l’Italia in uno Stato federale come lo sono Germania e Stati Uniti. Rimane tuttavia un dubbio, che il dibattito sul passaggio al federalismo ha da tempo messo in soffitta: che cosa accade se le Regioni iniziano a chiedere prestiti e poi non riescono a pagare i loro debiti? È vero che da anni il patto di stabilità interno impedisce agli enti locali di indebitarsi, e che comunque l’articolo 119 della Costituzione esclude «ogni garanzia dello Stato sui prestiti contratti dagli enti territoriali». E tuttavia il dubbio rimane. Si pensi al buco di 140 milioni della città di Catania, ai 500 milioni del Comune di Roma, ai 10 miliardi della sanità in Lazio, tutti prontamente ripagati dallo Stato. Né tranquillizza l’esperienza tedesca, che i federalisti spesso citano. Negli ultimi vent’anni due Länder si sono trovati nella condizione di non riuscire a ripagare i propri debiti: Brema e la Saarland. E per due volte di seguito (la prima alla fine degli anni ’80, la seconda dieci anni dopo) Berlino si è fatta carico della loro esposizione. Questi salvataggi hanno avuto due effetti: innanzitutto il mercato ormai considera quello dei Länder debito federale e infatti i tassi di interesse pagati sono gli stessi. Ma soprattutto, aver scoperto che le esposizioni locali possono essere scaricate sul governo federale ha eliminato ogni disciplina. Nel 1989 il debito di Brema ammontava a 9.791 euro per cittadino; oggi è salito a 23.100 euro per cittadino. D’altronde è appena accaduto anche in Europa. Nonostante nei trattati europei sia scritto chiaramente che i debiti di un Paese non possono in nessun caso essere fatti pagare dagli altri, abbiamo appena salvato la Grecia e creato un meccanismo in grado, se fosse necessario, di salvare Spagna e Portogallo. L’esperienza degli Stati Uniti è diversa. In teoria 49 dei 50 Stati dell’Unione (l’unica eccezione è il Vermont) non potrebbero emettere debito, cioè debbono avere bilanci sempre in pareggio. In realtà la legge è facilmente aggirata, spesso con grande fantasia. Alcuni Stati, come la California, semplicemente non pagano i fornitori; altri classificano l’incasso di una emissione di titoli fra le entrate. La differenza è che Washington non interviene mai per salvarli: quanto questo sia credibile lo si vede nei tassi di interesse pagati dagli Stati che sono sempre più alti di quelli pagati sul debito federale. Ma per arrivare a questo punto c’è voluta una lezione: aver avuto il coraggio trent’anni fa di lasciare fallire la città di New York. Finché salviamo Brema e Catania il messaggio è un po’ diverso. A questo punto un federalista convinto osserverebbe che per rendere credibile l’impegno a non salvare le Regioni basterebbe eliminare lo Stato centrale: il giorno in cui esso non esistesse più non potrebbe evidentemente salvare nessuno. L’ipotesi estrema della scomparsa dello Stato centrale è interessante anche perché dimostra che impedire alle Regioni di emettere debito, e cioè imporre loro il pareggio di bilancio, non è la scelta ottimale. Una Regione colpita da una calamità naturale, o da una recessione localizzata, non potrebbe infatti usare la politica di bilancio per farvi fronte. Le recessioni sarebbero più profonde e i costi sociali più elevati. Sono argomenti sui quali sarebbe utile discutere, prima di festeggiare l’arrivo del federalismo.


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