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La conclusione dei contratti derivati iattura per imprese e p.a.
Perdite in aumento. Se i contratti in essere fossero chiusi le imprese dovrebbero versare alle banche 60 mld

Fonte: Italia Oggi

I dati recentemente pubblicati dalla Banca d’Italia confermano che per le imprese italiane, come pure per numerose amministrazioni pubbliche, la conclusione di contratti derivati si è rivelata una vera e propria iattura. Nel primo trimestre 2010 sono 32.049 le imprese che risultano aver concluso contratti derivati con le banche. Le perdite complessive sembrano in aumento rispetto alle stime precedenti: se oggi i contratti in essere fossero chiusi le imprese italiane dovrebbero versare al sistema bancario quasi 60 miliardi di euro. Non è un dato da poco. Ed è un dato destinato a rivelarsi drammatico se se ne considerano gli effetti a livello di singola impresa: man mano che in centrale rischi vengono evidenziate le perdite sui derivati, l’impresa vede inaridirsi le sue possibilità di ricorrere al credito bancario. E ciò è tanto più amaro in un periodo, come l’attuale, di stretta creditizia. Si tratta di un fenomeno tanto rilevante da avere in passato suscitato anche l’attenzione del parlamento che ha chiesto alla Consob e alla Abi, l’Associazione delle banche italiane, precise relazioni sul punto. In questo scenario, non v’è da stupirsi se numerosi operatori si rivolgono alla magistratura ordinaria o a collegi arbitrali per far verificare la regolarità di questi contratti, che, presentati e conclusi come strumenti per la copertura dei rischi di cambio o di interesse, stanno oggettivamente mettendo a repentaglio l’equilibrio finanziario di una larga fetta del sistema delle piccole e medie imprese. La risposta dei giudici non è stata univoca anche a causa della peculiarità delle regole che in Italia disciplinavano la materia fino al 2007, ossia fino a quando non è stata recepita nell’ordinamento italiano la direttiva Mifid, la quale, almeno nella specifica materia ora in discorso, è effettivamente più favorevole agli investitori di quanto non fosse la disciplina italiana precedente. Fino al 2007, infatti, era sufficiente che un qualsiasi artigiano firmasse un modulo nel quale si dichiarava «operatore qualificato», affinché la banca fosse esentata dall’obbligo di applicare in suo favore la normativa di tutela prevista per quanti operano in strumenti finanziari. In altre parole, una volta firmato quel modulo l’impresa non finanziaria era ritenuta competente in materia di mercati finanziari quasi come la stessa banca. Questo era il senso del non più vigente art. 31, reg. Consob n. 11522 del 1998. Nessun altro paese in Europa aveva una normativa del genere, che rendeva estremamente facile escludere un’impresa dall’applicazione della disciplina dettata in materia di investimenti: era sufficiente la firma di un modulo. Anche in questa chiave può spiegarsi il grande ricorso ai derivati cui si è assistito in Italia dalla fine degli anni novanta. Sul cadere del secolo, infatti, le banche hanno visto flettersi i ricavi provenienti dai tradizionali canali di intermediazione. Di conseguenza, secondo alcuni osservatori gli istituti di credito hanno utilizzato le smagliature della disciplina regolamentare sugli «operatori qualificati» per incrementare la loro attività e le loro entrate sul fronte dei derivati. Alcuni giudici hanno applicato alla lettera l’art. 31 sopra citato. Talora, anzi, aggravandone le conseguenze, con conseguenze disastrose per le imprese non finanziarie. Non si è, per esempio, tenuto conto che la stessa disciplina degli «operatori qualificati» vigente fino al 2007, a ben vedere, non lasciava assolutamente senza limiti l’attività delle banche. In particolare, l’art. 26 del regolamento Consob n. 11522/98 prima citato imponeva, tra l’altro, alle banche di operare una precisa analisi costi-benefici per stabilire se un determinato prodotto finanziario fosse effettivamente conveniente per il cliente. Ciò si ricava, precisamente, dalla lett. F) dello stesso art. 26, secondo la quale le banche avrebbero dovuto operare «al fine di contenere i costi a carico degli investitori e di ottenere da ogni servizio d’investimento il miglior risultato possibile, anche in relazione al livello di rischio prescelto dall’investitore». Sennonché, questa analisi costi-benefici, che, si ripete, secondo la norma avrebbe dovuto essere finalizzata al perseguimento del «miglior risultato possibile» per il cliente, è spesso mancata nella pratica, malgrado essa fosse in qualche modo raccomandata anche dall’Abi. L’eccessivo favore verso le banche di taluni giudici di merito è stato temperato dalla Corte di cassazione. Con la sentenza n. 12138 del 2009 la Corte Suprema ha stabilito che, in definitiva, il valore della dichiarazione, con la quale le imprese e le amministrazioni pubbliche si sono dichiarate «operatore qualificato», deve essere verificato caso per caso. Con ciò la Cassazione ha reso il nostro sistema un po’ meno lontano dall’Europa e dai mercati più evoluti. Di fronte a una contesa tra una banca e un cliente che si presume essere «operatore qualificato», i giudici inglesi procedono a una attenta ricostruzione dei rapporti tra la banca e il cliente onde accertare nei fatti l’effettiva «qualificazione» del cliente stesso. La nostra Cassazione non è arrivata a tanto: ha, però, stabilito che la dichiarazione con la quale il cliente si proclama «operatore qualificato» non ha valore assoluto, ma occorre stabilire se la banca poteva comunque essere in grado nel singolo caso concreto di rendersi conto che, a prescindere dalla dichiarazione, il cliente non possedeva in realtà una qualificazione in materia finanziaria tale da fargli comprendere la portata e i rischi connessi ai derivati conclusi. La via per una difesa efficace del cliente è così aperta: da un lato, una attenta ricostruzione in fatto dei rapporti tra la banca e il cliente, con particolare attenzione alle modalità con le quali si è addivenuti al riconoscimento al cliente stesso della natura di «operatore qualificato»; dall’altro lato, va ricordata al giudice la necessità di rivedere alcuni concetti tecnico-giuridici, come quelli di «autoresponsabilità» e di «affidamento», che sono stati sviluppati dalla dottrina giuridica in funzione delle esigenze di sviluppo commerciale proprie dell’ottocento e del novecento e che non sono più adeguati alle esigenze presentate dal mercato finanziario negli ultimi venti anni. Queste esigenze sono state evidenziate in modo drammatico dalla crisi del 2008. Il panico serpeggiato nel mondo nel 2008 ha mostrato come la priorità del mercato finanziario del 2010 non è quella di un ulteriore crescita. Al contrario, i valori preminenti assegnati fin dal 1992 al mercato finanziario dalle direttive europee sono quelli della «tutela del cliente» e della «integrità del mercato». Su questi valori devono, quindi, essere riconsiderate le operazioni in derivati concluse dalle imprese non finanziarie e dagli enti pubblici. Altrimenti sarebbero messi seriamente a rischio sia l’ala portante del sistema produttivo italiano, sia le finanze pubbliche.


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