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L'ordine di Gobbo: «Non suonate l'inno di Mameli»
Il caso - Il segretario del Carroccio interviene dopo le polemiche con il Pd e il Pdl, relegando l'esecuzione alle sole manifestazioni delle forze armate

Fonte: Corriere del Veneto

TREVISO – Sono anni che nel jukebox leghista il disco di Mameli ora suona e ora gracchia. Per i patriottici a tutti i costi l’inno nazionale «è imprescindibile », mentre per gli insofferenti all’unità della Penisola il «Va’ pensiero» dovrebbe rimpiazzare «Fratelli d’I-talia». E ogni volta giù diatribe e figuracce, scatti in avanti e prese di distanza, ritorni di fiamma (magari a ridosso dei mondiali di calcio) e nuove separazioni (spesso in occasione dei raduni padani). Per questo il capo ha deciso che basta così: stop alle monetine in mano a sindaci e presidenti, da adesso in avanti sarà inutile selezionare il «Canto degli italiani » (o qualunque altro brano) per qualsiasi cerimonia che non sia «strettamente legata alle forze armate, come potrebbe essere l’inaugurazione di una caserma». Chi spegnerà la musica? Gian Paolo Gobbo in persona, perché il segretario nazionale della Liga Veneta è a dir poco esausto di polemiche che ultimamente rischiano addirittura di incrinare i rapporti con gli alleati all’interno di amministrazioni cruciali per il Carroccio. Il caso di Venezia è eloquente. In consiglio provinciale la Lega ha abbandonato l’aula al momento di votare la risoluzione, proposta dall’oppo-sizione del Pd, che impegnava a suonare quello che è uno dei simboli repubblicani «nel corso di ogni manifestazione pubblica in cui siano presenti autorità istituzionali ». Immediato ed inevitabile il conflitto interno alla maggioranza di centrodestra. «Per noi l’inno è come la mamma, non si tocca», ha tagliato corto il pidiellino Mario Dalla Tor, vicepresidente della Provincia. E la pur padanissima Francesca Zaccariotto, numero uno di Ca’ Corner, ha spiegato di non poter accettare lezioni dal centrosinistra: «Io l’inno l’ho sempre cantato emi fa venire i brividi, sono sindaco di una città in cui ogni prima domenica del mese c’è l’alzabandiera». Ma è l’ultimo episodio della serie, avvenuto nella sua Marca, ad aver fatto sbottare Gobbo. Dopo aver chiamato una piccola violinista romena a suonare l’inno d’Italia al taglio del nastro del restaurato ex asilo Vascellari di Chiarano, trasformato in centro per disabili, il locale primo cittadino (nonché senatore del Carroccio) Gianpaolo Vallardi ha proposto di rinunciare al triste karaoke in cui certi amministratori leghisti proprio non riescono ad intonare un testo «in cui non è possibile riconoscersi, soprattutto in quel passaggio “ché schiava di Roma Iddio la creò?”». Quindi meglio «suonarlo senza cantarlo ». Poco importa che a giugno il governatore Luca Zaia, per spegnere l’incendio innescato dal suo presunto niet all’esecuzione dell’inno di Mameli all’apertura di una scuola a Vedelago, avesse recitato in tv la strofa incriminata. E non basta nemmeno che ieri sera, ospite di XNewssu Antennatre Nordest, lo «sceriffo» Giancarlo Gentilini abbia intonato davanti alle telecamere il brano ufficiale della Repubblica: «Finché la Lega non avrà il 51% dei consensi, questo resterà il mio canto». Per il generale Gobbo d’ora in avanti la truppa dovrà marciare allineata e coperta nel più rigoroso silenzio. Proprio così: «Per me l’inno d’Italia non serve assolutamente, perché non è certo quello che contribuisce ad alimentare il senso dello Stato. Perciò non voglio più sentire storie, d’ora in avanti i miei dovranno seguirmi sulla mia strada. Che senso ha chiedere alle bande di eseguire Mameli in tutte le occasioni, dalle inaugurazioni delle scuole alle presentazioni degli spumanti? Da adesso in poi le cerimonie si faranno senza inni». Unica eccezione: l’ingresso nelle nuove caserme. «Per rispetto delle forze dell’or-dine», puntualizza il leader. Vallardi vorrebbe suggerire a Gobbo un’alternativa: «La canzone del Piave». Ma ci pensi bene: al giradischi hanno tolto la corrente.


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