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Rifiuti, chi fa da sé paga la Tarsu
La Cassazione ha accolto un ricorso del comune di Milano contro un istituto di credito

Fonte: Italia Oggi

La Tarsu, configurandosi come un tributo, è dovuta dal contribuente, anche se il servizio di smaltimento rifiuti è effettuato dal privato senza la partecipazione dell’ente impositore. Questa è la massima ricavabile dalla recente presa di posizione della Corte di cassazione (sentenza n. 17381 del 23/7/2010), la quale si è pronunciata favorevolmente a seguito di un ricorso del comune di Milano avverso la decisione della Commissione tributaria regionale che aveva dato ragione ad un istituto di credito che nello svolgimento della sua attività, producendo rifiuti in massima parte cartacei, si avvaleva di un operatore specializzato esterno per lo smaltimento dei rifiuti in argomento. L’argomento di cui alla sentenza in esame ci sembra di particolare interesse in quanto si incentra principalmente sulla natura della Tariffa di smaltimento dei rifiuti, di cui peraltro abbiamo già trattato nel passato. Ma andiamo per ordine: la Commissione regionale aveva statuito che la Tarsu «è sinallagmaticamente collegata al costo di un servizio e che, nel caso di specie, la Banca non usufruisce del servizio di smaltimento dei propri rifiuti, al quale provvede in proprio per il tramite di società autorizzata, sottraendosi così alla privativa comunale». Questa impostazione sostenuta dalla difesa della banca era provata sia attraverso i supporti forniti sia per le argomentazioni di sostegno, condividendo così la tesi della Banca appellante che distingueva i formulari di identificazione rifiuto, relativi ai rifiuti speciali assimilati avviati al recupero, che legittimavano la richiesta di rimborso parziale dell’imposta iscritti a ruolo, misura corrispondente a quella della superficie produttrice degli stessi rifiuti. Il comune nel ricorso in Cassazione ha sostenuto, attraverso distinti motivi di doglianza che a suo dire, sarebbe errata la concezione del rapporto Tarsu come rapporto sinallagmatico, con la conseguenza che, se, come nel caso controverso, il servizio non sia stato reso, la tassa non potrebbe essere pretesa. Infatti, il dlgs 15/11/1993, n. 57, art. 62 nel prevedere che la pura e semplice detenzione, o disponibilità, di area nel territorio comunale, quale vera e propria presunzione legale, salvo per alcuni casi di esclusione, imponeva e impone il pagamento della tassa, che si usufruisca o meno del servizio, esclude in modo evidente la natura sinallagmatica del rapporto fra comune e utente, in quanto l’obbligo del pagamento solo a fronte della prestazione, in materia risulta esclusa normativamente. L’impostazione teorica del comune è stata condivisa con convinzione dai giudici della Cassazione. In particolare i giudici affermano che «infatti, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, poiché la Tarsu, ai sensi del dlgs 15/11/1993, n. 507, art. 62, comma 1 che costituisce previsione di carattere generale, è dovuta unicamente per il fatto di occupare o detenere locali ed aree scoperte a qualsiasi uso adibiti (a esclusione delle aree scoperte pertinenziali o accessorie ad abitazioni), sia le deroghe alla tassazione indicate nel comma 2 del medesimo art. 62, sia le riduzioni delle superfici e tariffarie stabilite dal successivo art. 66 non operano in via automatica, in base alla mera sussistenza delle previste situazioni di fatto, dovendo, invece, i relativi presupposti essere di volta in volta dedotti nella denuncia originaria o in quella di variazione». Il riconoscimento della sinallagmaticità al rapporto relativo alla Tarsu è stato negato dall’ordinanza delle sezioni unite della Corte di cassazione 11/2/2008, n. 3151, secondo la quale rientrano «nel sistema fiscale anche quelle entrate pubbliche che si possono con termine moderno denominare tasse di scopo che cioè mirano a fronteggiare una spesa di interesse generale ripartendone l’onere sulle categorie sociali che da questa spesa traggono vantaggio, o che comunque determinano l’esigenza per la mano pubblica di provvedere». Esempi in proposito sono costituiti dai contributi consortili, dalla Tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani (ora Tariffa igiene ambientale). Si tratta di un complesso di proventi non sempre esattamente inquadrabili e definibili, i cui confini sono stati tracciati dalle sezioni unite (ordinanze n. 123 del 9/1/2007 e n. 8956 del 16/4/2007) attraverso l’affermazione secondo cui deve essere riconosciuta natura tributaria a tutte quelle prestazioni che non trovino giustificazione o in una finalità punitiva perseguita dal soggetto pubblico, o in un rapporto sinallagmatico tra la prestazione stessa ed il beneficio che il singolo riceve. Concludendo, la Cassazione nell’accogliere il ricorso del comune, precisa che tali enti locali esercitano in regime di privativa la raccolta e la gestione dei rifiuti solidi urbani e di quelli assimilati e per la prestazione del relativo servizio grava sui cittadini l’obbligo del pagamento del tributo, indipendentemente dal fatto che essi utilizzino il servizio medesimo, perché ne abbiano la possibilità, con ciò riconoscendo ancora una volta la natura tributaria della Tarsu.


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