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Il governo dice no all'election day
Amministrative - L'annuncio di Maroni al consiglio dei ministri: primo turno il 15-16 maggio, referendum il 12 giugno

ROMA – Niente election day. Il Governo decide di separare il voto amministrativo, che ci sarà il 15 maggio (secondo turno il 29-30 maggio) dal referendum che potrebbe essere fissato il 12 giugno ma si trova davanti a un fuoco di sbarramento delle opposizioni. «Sprecate 300 milioni di euro», è l’accusa di Pierluigi Bersani e pure di Antonio Di Pietro che sul referendum sul legittimo impedimento ha costruito la sua nuova battaglia contro il premier. Sul piede di guerra anche Nichi Vendola che punta non solo sull’abrogazione del legittimo impedimento ma anche sul quesito che riguarda il nucleare e la privatizzazione dell’acqua. Ma mentre la polemica infuria c’è chi ricorda all’opposizione – e al Pd soprattutto – che i precedenti non mancano. È la Velina Rossa, il foglio di Pasquale Laurito vicino ai dalemiani, a ricordare che nel ’97, ai tempi del Governo Prodi, si decise di separare il voto amministrativo dal pacchetto di referendum promossi dai Radicali. E a quel tempo il ministro dell’Interno era Giorgio Napolitano. Forse non è un caso che sia stato ricordato: non è un mistero, infatti, che una buona parte del Pd frena sul referendum che riguarda il legittimo impedimento e non per una sola ragione. La prima è non voler stare al rimorchio di Di Pietro, la seconda – più importante – è che molti Democratici ritengono che non si raggiungerà il quorum e quindi preferiscono stare defilati. «Ma la Consulta ha già corretto e arginato quella legge», diceva un perplesso Pierluigi Castagnetti che al suo partito suggerisce prudenza per non fornire altre vittorie strumentali a Silvio Berlusconi. Ma l’informalità dei ragionamenti politici spesso non conquista la ribalta ufficiale. E comunque ieri per il Pd era prioritario puntare il dito sullo spreco di soldi pubblici che arriva in tempi ben magri per il Paese e che il Governo avrebbe potuto investire altrove. «Il referendum si può svolgere entro il 15 giugno e l’ultima data utile è domenica 12. Spetta al Consiglio dei ministri la decisione ma tenere separate le due consultazioni è una tradizione», ha detto ieri in conferenza stampa il ministro Maroni. Ed è su questo annuncio che è partito subito l’altolà di Pierluigi Bersani: «Il mancato accorpamento di amministrative e referendum porterà a uno spreco di 300 milioni che la Lega dovrà spiegare al Nord. Il Carroccio è così risparmioso sulla festa per l’unità d’Italia e ora consente uno spreco di 300 milioni? Chi pagherà? Se le tasse le paga solo il Nord sarà il Nord a pagare per far saltare il referendum sul legittimo impedimento». Sulla stessa linea del segretario del Pd anche Nichi Vendola. «Dove sono i guardiani dei conti pubblici, coloro che rappresentano un atteggiamento rigorista?», si chiedeva il leader di Sel ma il più duro – naturalmente – è Antonio di Pietro “padre” del quesito sul legittimo impedimento. «Il governo è impaurito, truffaldino e anche un po’ ladro: decidendo di mandare a votare gli elettori una settimana dopo l’altra, spende il doppio dei soldi». Il leader dell’Idv ha reso anche nota la lettera che aveva inviato al ministro Maroni in cui si dice che «una strategia volta ad annullare i referendum puntando sul mancato raggiungimento del quorum, è lecita quando messa in opera dalla politica ma è inaccettabile se praticata dal Governo, che ha il preciso dovere di agevolare e incentivare la partecipazione dei cittadini a ogni consultazione elettorale». Ma la vera provocazione arriva da Beppe Grillo: «Gli italiani devono chiedere indietro 5-10 euro ciascuno».


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