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Contratto unico, suggestione fuori dal tempo
Le proposte per riformare il lavoro

Cancellare, per decreto, il precariato? Abbattere il regime di apartheid tra protetti e non protetti che caratterizza, più di altri, il nostro mercato del lavoro? La soluzione, per qualcuno, c’è. Ed è anche semplice. Basta obbligare tutte le imprese ad assumere unicamente con contratti di lavoro a tempo indeterminato. È questa, nella sostanza, la proposta di “contratto unico” rilanciata anche dal presidente della Camera, Gianfranco Fini. La suggestione – e il limite – della proposta del “contratto unico” è tutta qui. Nell’irragionevole convinzione, che nessuno ha mai osato avanzare neppure nei regimi comunisti, di poter ingabbiare la multiforme e sempre più diversificata realtà dei moderni modi di lavorare e produrre in un unico schema contrattuale. Vietando, di conseguenza, le forme di lavoro coordinato e continuativo, ancorché genuine. Comprimendo in una rigida casistica le ipotesi di legittimo ricorso al lavoro a termine, che sarebbe vietato anche quando esiste una plausibile ragione tecnica, organizzativa o produttiva. Negando la valenza formativa ed educativa del lavoro, nei contratti d’ingresso incentivati per i gruppi svantaggiati e l’apprendistato per i giovani. Contratti che sarebbero eliminati per una flessibilità pura, nei primi tre anni, malamente bilanciata da una monetizzazione della piena libertà di licenziamento. Una simile soluzione penalizzerebbe non solo le imprese, ma prima ancora i lavoratori. A partire dai giovani e dai molti esclusi dal mercato e che paradossalmente, ancor più di oggi, sarebbero vittime sacrificali. Predestinate non più al “precariato” ma, peggio, al lavoro “nero”. Perché a essi sarebbero preclusi, in nome di una malintesa e irrealistica standardizzazione delle tutele, non solo stage, contratti tramite agenzia, rapporti a contenuto formativo e collaborazioni a progetto, ma anche, almeno nei primi tre anni con un medesimo datore o committente, tutti i regimi di tutela della stabilità dell’occupazione. Tre anni di “prova lunga” e senza articolo 18 all’insegna del “finalmente nessuno più discriminato” perché tutti privati della stabilità reale del posto. Tre lunghi anni, peraltro, neppure “compensati”, come avviene oggi per i 600mila apprendisti, da un possibile addestramento e inserimento mirato nel lavoro attraverso la formazione. Con il rischio, se non confermati al termine del triennio, di dover inesorabilmente ripartire da zero. Proprio come avviene oggi. I sostenitori del contratto unico ribattono che nessuno ha sin qui prospettato alternative. Ma questo non è vero se si ricorda il progetto di Statuto dei lavori, elaborato nel 1998 da Marco Biagi per Tiziano Treu e ora rilanciato da Maurizio Sacconi nel suo Libro Bianco sul futuro del modello sociale. E proprio il perno del ragionamento dello Statuto dei lavori, e cioè l’occupabilità delle persone, è diventato ora il baricentro dell’accordo sul rilancio dell’apprendistato dello scorso 27 ottobre tra Governo, Regioni e tutte le parti sociali, Cgil inclusa. Un accordo che individua nelle competenze, nella formazione e nella integrazione tra scuola e lavoro le vere leve della stabilità occupazionale dei giovani. Invero, a quanti insistono con l’idea irrealistica del contratto unico, si può in fondo ribattere che non c’è davvero bisogno di inventare qualcosa di nuovo. Cos’altro è, infatti, l’apprendistato se non una forma di ingresso a fasi successive nel lavoro attraverso un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, con una prova, un inserimento in modalità formativa e infine, al termine del periodo di apprendimento, la possibilità (ma non l’obbligo) di stabilizzazione senza soluzione di continuità in ragione delle competenze acquisite dal giovane?


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