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Sud a caccia dell'industria che non c'è
Un Paese diviso in due - Il rapporto Svimez sui 150 anni di divario

L’autobiografia della nazione attraverso i numeri. Che, sgranandosi uno dopo l’altro in un rosario lungo 150 anni, mostrano come il Nord senza il Sud non sarebbe esistito, ma anche come il Mezzogiorno abbia una (forse) irriducibile specificità fatta di industrializzazione senza imprenditori, minori infrastrutture materiali e analfabetismo difficile da sradicare. La Svimez compie un’operazione di rigore positivistico pubblicando 538 (cinquecentotrentotto) tavole nel volume «150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011». Grafici e statistiche che annichiliscono le discussioni, spesso venate di ideologia, fra neo-borbonici e nordisti con tendenze anti-unitarie. Il tutto, per provare a rispondere alla domanda: per quale ragione il divario fra il Sud e il resto del Paese cresce? Sì, perché, la capacità di creare ricchezza nel 1861 è la medesima. Dopo, l’indicatore del Pil procapite del Mezzogiorno in percentuale a quello del Centro-Nord scende. Se nel 1861 è pari a 100, negli anni 90 dell’Ottocento inizia a calare per poi precipitare durante il fascismo e, dagli anni Cinquanta, stabilizzarsi in una forchetta compresa fra il 50% e il 60% rispetto al Centro-Nord. E non è solo effetto della maggiore velocità del tasso di crescita di quest’ultimo. C’è dell’altro. Nel 1861, è tutta l’Italia a versare in condizioni di arretratezza. La produzione siderurgica nazionale è un centesimo di quella inglese. Nel tessile, i fusi a filare sono 450mila, contro i 30 milioni dell’Inghilterra. «In questa minorità produttiva – riflette lo storico Guido Pescosolido – il punto di partenza fra il Centro-Nord e il Sud non è troppo dissimile». Nel 1861, gli addetti impegnati nell’industria meridionale sono 1,25 milioni. Nel Centro-Nord se ne contano 1,5 milioni. La percentuale della popolazione attiva che si dedica alla manifattura è addirittura superiore al Sud: il 22,8%, contro il 15,5 per cento. Ma, in centocinquanta anni, l’industria al Sud non supera gli 1,7 milioni di occupati, che nel resto dell’Italia arrivano in maniera graduale a 5,8 milioni. Al Sud, quasi che il tempo si sia fermato, continua oggi a lavorare nella manifattura una persona su cinque. Come centocinquanta anni fa. Al Centro-Nord lo fa una su tre. «Prima il mercato nazionale non esisteva – dice Pescosolido – ogni staterello aveva barriere doganali. Con la costituzione dell’Italia si forma un mercato di sbocco unico e aperto. È anche per questo che la vicenda del Paese va letta in maniera unificata e unificante. Senza i consumatori del Sud, le merci del Nord sarebbero potute andare soltanto al di là delle Alpi». Anche se, nella nostra storia, non scatta un perfetto incastro delle due economie, che in alcuni segmenti vitali costituiscono circuiti distinti: per esempio, i prodotti agricoli meridionali, come l’olio e gli agrumi, dopo essere stati lavorati pre-industrialmente sono venduti subito sui mercati stranieri, non passano dal Nord. Sono trasportati spesso via mare. Non via ferrovia. Proprio la ferrovia, nella nostra storia, ha un ruolo centrale. Cavour, dopo avere fatto l’Italia, usando la leva del debito pubblico prova a fare le ferrovie italiane. Nel 1861 nel Centro-Nord si trovano 14,5 chilometri di binari ogni mille chilometri quadrati. Nel Sud, soltanto 1,5 chilometri. Nel 1886, sono diventati rispettivamente 50,1 chilometri e 31,8 chilometri. Nel 1912, 64,4 contro 56. Nel 1938, si assiste addirittura a un sorpasso: 73,7 chilometri al Centro-Nord e 76,8 chilometri al Sud, dove però anno dopo anno si consuma un lento degrado che porta oggi la rete ferroviaria a 46,6 chilometri, rispetto ai 61 chilometri ogni mille chilometri quadrati del Centro-Nord. La dotazione infrastrutturale per lo sviluppo economico e civile non è esclusivamente materiale. È pure finanziaria e cognitiva. Nel Mezzogiorno esistono meno banche e, in proporzione, tendono a esisterne sempre meno: nel 1890 sono 551 contro le 1.444 del Centro-Nord (una ogni due e mezza), nel 2010 sono 163 contro 626 (una ogni quattro). Soprattutto, c’è un problema culturale: nel 1861 in Piemonte e in Lombardia è analfabeta una persona su due, in Sicilia e in Puglia lo sono nove su dieci. Nel 1951, al Nord il tasso di analfabetismo è del 6,4% (2,6% in Piemonte e 2,7% in Lombardia), al Sud del 24,4% (32% in Calabria, 25% in Sicilia e 23% in Campania). «Nel 1951 – sottolinea l’economista Gianfranco Viesti – il calabrese medio andava a scuola meno di tre anni, il lombardo più di cinque». Dunque, il Sud esce devastato dalla seconda guerra mondiale. E non solo per le bombe e le rovine. «Fra il 1861 e la Prima guerra mondiale – dice Pescosolido – il gap fra Nord e Sud è in buona parte colmato. Il divario torna a crescere durante il fascismo». Il Sud, con l’autarchia economica e l’isolazionismo-culturale, arretra di nuovo. L’analfabetismo è una piaga. I tentativi di integrazione fra i circuiti economici del Nord e del Sud perdono forza. I rapporti con l’estero si interrompono. Le infrastrutture materiali e finanziarie sono ancora più deboli al Sud. Tutti elementi che contribuiscono, sotto il fascismo, a scavare la voragine con il Nord. E, poi, c’è la guerra. È in questo contesto che l’industrializzazione, pensata nel secondo dopoguerra da alcuni intellettuali cattolico-democristiani e laico-socialisti e trasformata nel 1964 in linea strategica dal primo governo di centrosinistra (presidente del consiglio Aldo Moro e vicepresidente Pietro Nenni), è giudicata il motore che potrebbe liberare nuove energie economiche, politiche e culturali. Energie che, in virtù dell’ottimismo materialista proprio di quel progressismo razionalista, potrebbe promuovere una metamorfosi dell’intero Mezzogiorno. Lo storico Luciano Cafagna, allora, è un collaboratore di Antonio Giolitti, ministro del Bilancio nel 1964 e protagonista centrale della stagione della programmazione economica. «Investimenti ingenti del capitale pubblico e incentivi ai gruppi privati – ricorda Cafagna – hanno portato all’industrializzazione del Sud. All’inizio, molte cose sono andate bene. Anche in quel primo periodo, però, abbiamo commesso errori. Per esempio, per assecondare la filosofia sindacale egemone, non accettammo l’idea elaborata dalla economista Vera Lutz dei salari differenziati, che sarebbero stati utili per attirare investimenti volontari al Sud». Nella fase successiva, l’industrializzazione del Sud è segnata dalla prevalenza della politica sull’economia e dalla presa dei partiti sui grandi gruppi pubblici. E la classe dirigente italiana non si mostra in grado di plasmare una realtà dove lo spirito imprenditoriale non attecchisce. «Di imprenditori – sottolinea Cafagna – il Sud ne ha sempre avuti pochi. I commercianti in Puglia. Qualcuno in Campania. Intorno agli stabilimenti pubblici e privati, però, non sono sorte e non hanno prosperato piccole e medie imprese. Non si sono formate vere e proprie filiere. Da questo punto di vista l’immagine delle cattedrali del deserto resta valida. Anche per le fabbriche che hanno funzionato in passato e anche per quelle che funzionano tuttora». Una sterilità, o per lo meno una minore fecondità, che traspare dall’andamento storico delle imprese con almeno due addetti. Nel 1903 sono 68.001 al Centro-Nord e 49.340 al Sud: il 35% in più al Nord. Nel 2008 se ne contano 526.730 al Nord e 131.670 al Sud: il 300% in più al Nord. Un indicatore che non tiene conto del fatto che le aziende meridionali sono in media molto più piccole. Anche se va ricordato come, in un contesto insieme unito e distinto, molti giovani del Sud per trent’anni hanno preso un treno per andare a lavorare nelle fabbriche del Nord. Anche per questo, alla fine, il vero assente nella storia italiana è l'”imprenditore” meridionale. «In ogni caso – riflette Viesti – quel poco di imprenditoria meridionale che c’è rappresenta l’estremizzazione di quella settentrionale: ha una dimensione inferiore, è ancora più fragile finanziariamente, è più esposta ai mercati globali». Il Sud come matrioska deformata del Nord: più piccola, ma con gli stessi tratti. Le due parti del Paese ora si sovrappongono, ora no. Ora si integrano, ora no. Ma, alla fine, hanno comunque un legame di simbiosi. Non sarà un caso che, oggi, il 40% di quanto si produce al Nord finisca al Sud. E che il 63% di ciò che si spende al Sud vada al Nord.


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