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Dagli incentivi le distorsioni ai piani di crescita
ANALISI

Quando parlare di Mezzogiorno piuttosto che dei “Mezzogiorni”, era considerato più o meno come un atto di grave maleducazione, la Svimez fu fra i pochi capaci di ricordare agli italiani che le disomogeneità presenti nel Mezzogiorno non dovevano impedire che al Mezzogiorno si guardasse come un’unica grande area in ritardo di sviluppo. Quando il Mezzogiorno cominciò ad essere pervaso dalle “dolci follie” della Nuova programmazione, la Svimez fu fra i pochi che manifestarono dubbi e perplessità sulla impostazione di politiche regionali di cui oggi riconosciamo non solo e non tanto l’inutilità quanto la dannosità. Alla Svimez va dato atto di essersi sempre, strenuamente battuta perché si tornasse a guardare al Mezzogiorno in un’ottica nazionale e di questa meritoria impostazione, il volume Nord e Sud a 150 anni dall’Unità d’Italia, che sta per essere presentato, costituisce certamente un ulteriore significativo passaggio che, com’era da attendersi, non tarderà a riaprire il dibattito sulla persistenza del divario fra il Mezzogiorno ed il resto del Paese. Chi scrive ritiene, peraltro, che l’idea ripresa dalla Svimez di una sostanziale parità dei punti di partenza e cioè di una identica capacità di creare ricchezza tanto nel Nord quanto nel Sud d’Italia nel 1861 poggi su evidenze empiriche ancora troppo fragili per essere pienamente credibili e non regga ad una valutazione a 360° di quelle capacità. A breve, altre ricerche ci spingeranno a rivedere in tutto o in parte il giudizio sulle disparità regionali in Italia al momento dell’Unità. Quali che fossero i punti di partenza, la situazione odierna è comunque sotto gli occhi di tutti e porta spesso e volentieri a sottolineare l’inadeguatezza della classe dirigente meridionale, la sua debolezza politica, la sua fragilità amministrativa e la sua labile etica. Se non, addirittura, – l’esplicito riferimento è agli imprenditori meridionali – la sua “assenza”. Questa, ad esempio, è la tesi che traspare nel resoconto, puntuale ed accurato, dei dati raccolti dalla Svimez e pubblicato qualche giorno fa nelle colonne di questo giornale (Sud a caccia dell’industria che non c’è, 25 maggio 2011). Com’è evidente, la distanza fra questa tesi ed una interpretazione “antropologica” del divario Nord-Sud (il Mezzogiorno è quello che è perché è popolato dai meridionali, l’industria meridionale è quella che è perché mancano i meridionali imprenditori) è fin troppo breve. Ma è una tesi che non regge ad una valutazione attenta: le classi dirigenti – anche quelle meridionali – non provengono dall’Iperuranio. Sono il risultato del funzionamento dei canali di selezione delle stesse e fotografano la struttura di incentivi prevalente nella società. Una struttura di incentivi spesso veicolata dalle politiche che – si noti – le stesse classi dirigenti sono poi chiamate ad attuare. Se il rendimento di un’ora spesa da un imprenditore nella ricerca di incentivi pubblici discrezionali è comunque più redditizia di un’ora spesa in giro per il mondo alla ricerca di nuovi mercati o in laboratorio alla ricerca di nuovi prodotti, va da sé che ad emergere saranno sempre e comunque imprenditori sui generis: maestri delle pubbliche relazioni, versati nelle normative e nei loro processi di formazione, tanto a loro agio nei corridoi dei pubblici uffici quanto lontani dai valori della competizione e della concorrenza. Nel Mezzogiorno non è assente la voglia di fare impresa ma è quotidianamente frustrata da comportamenti e politiche pubbliche che chiedono agli imprenditori, quotidianamente, di essere altro da sé. Di non essere imprenditori, se vogliono fare gli imprenditori. Questa è stata ed è – senza soluzioni di continuità anzi con un picco in corrispondenza dell’ultimo quindicennio – la condizione del Mezzogiorno. Dalla conclusione della esperienza della Cassa per il Mezzogiorno “prima versione” (quella dei tecnici, dei pochi interventi mirati, etc. etc.), proprio cinquant’anni fa, ad oggi, passando per l’Agenzia del Mezzogiorno e poi per la Nuova Programmazione, la struttura profonda degli incentivi impliciti nelle politiche di intervento nel Mezzogiorno non solo non è cambiata ma si è, se possibile, consolidata lasciando inalterati gli effetti profondamente distorsivi di quegli incentivi sui processi di selezione delle classi dirigenti. E, al loro interno, sulla imprenditoria meridionale. In questo senso, il Mezzogiorno avrebbe in primo luogo bisogno di vedere rovesciata quella struttura di incentivi. Il che significa che avrebbe bisogno di tornare a vedere lo Stato, in tutte le sue articolazioni, impegnato nei sui compiti essenziali (amministrare la giustizia, garantire l’ordine pubblico e la sicurezza, fornire servizi sanitari ed educativi, infrastrutturare il territorio) e solo in quelli. Evitando accuratamente tutte quelle occasioni di intermediazione politica e burocratica (che spesso vanno sotto il nome di “politica industriale”) che hanno in mezzo secolo corroso il tessuto sociale e produttivo meridionale. Invertire una rotta lunga cinquant’anni, non è facile e richiede anche momenti simbolici. Momenti, al tempo stesso, di verità e responsabilità. È quindi forse arrivato il momento di immaginare una Commissione parlamentare che ripercorra le modalità di utilizzo dei fondi europei nell’ultimo quindicennio e attribuisca, se possibile, le necessarie responsabilità in quella che a molti appare come una vicenda in cui lo spreco di risorse pubbliche è stato tale da far impallidire quanto avvenne durante la ricostruzione seguita al terremoto irpino del 1980.


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