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Norma giusta, criteri disomogenei
La babele dei bilanci

La Corte dei conti a sezioni riunite ha dato la lettura definitiva, e molto restrittiva, delle norme in materia di vincoli alle assunzioni, ponendo quindi fine alla babele di interpretazioni sul tema (delibera n. 27/contr/11). Le proteste sul merito, e l’osservazione che molti Comuni si trovano “all’improvviso” fuori soglia, e con ciò nell’impossibilità di assumere dipendenti tout court, sono comprensibili: fermo restando che il problema è tutto normativo, e che la Corte dei conti non ha fatto altro che renderlo esplicito. La legge, in effetti, mira a un obiettivo condivisibile, quello di ridurre l’incidenza del costo del lavoro, quale che sia, sul totale delle spese correnti. Si vuole così diminuire il grado di rigidità della spesa (come si è fatto mettendo un tetto alla spesa per interessi) e anche limitare il ricorso a forme di lavoro precario. Da questo punto di vista si deve quindi apprezzare la scelta del legislatore, solo che la norma rischia di essere iniqua sotto molti punti di vista. E, ancora, è necessario chiarire alcune modalità di calcolo del costo delle retribuzioni, così da renderne più equa e sostenibile la sua applicazione. Il primo elemento di perplessità è, per così dire, algebrico: ci sono molti enti che incorreranno nel divieto nel 2011 (e non nel 2010) come effetto dei tagli ai trasferimenti: il costo del lavoro resterà più o meno lo stesso ma si ridurrà l’ammontare complessivo delle spese correnti. Questa riduzione è un elemento virtuoso oppure no? Non si rischia di sanzionare i Comuni che hanno tagliato piuttosto che immaginarsi entrate fantasiose? Un altro elemento è relativo a voci che non dovrebbero rientrare nei temi di finanza pubblica, perché a questi estranee: possibile conteggiare nelle spese del personale, come nella spesa totale, gli oneri finanziati con sponsorizzazioni o con finanziamenti Ue? Sarebbe curioso disincentivare chi riesce a trovare risorse esterne, sanzionandolo con il divieto assoluto di assunzione. Ancora, si deve pensare che il tetto del 40% dovrebbe essere posto, per equità, a un aggregato di spesa che sia omogeneo. Un esempio per tutti: in Italia ci sono oltre mille Comuni che hanno deciso di applicare la Tia al posto della Tarsu. In questi Comuni non “transita”, come negli altri, l’entrata e quindi la spesa relativa ai rifiuti. Questa spesa incide in modo importante sul denominatore del rapporto tra retribuzioni e spesa corrente. Nel Comune di Firenze, per fare un esempio, si tratterebbe di far passare le spese correnti da meno di 500 milioni di euro a quasi 580 milioni, con un incremento formale di circa l’8%. Questo esempio ripropone la questione, più generale, del diverso grado di esternalizzazione che possono aver realizzato i singoli enti, e che tende a penalizzare i Comuni piccoli e quelli del Sud. È chiaro, infatti, che calcolare il dato su un bilancio consolidato renderebbe il tutto più omogeneo ma questo, a oggi, non è possibile (mancano i decreti di attuazione al comma 2 bis dell’articolo 18 della manovra estiva del 2008) e non è neppure quanto a oggi pretende la Corte, che si preoccupa solo di avvisare che non saranno accettati espedienti elusivi del tipo «non posso assumere io direttamente allora lo faccio fare da una mia società partecipata». In ultima analisi se non si vuole che una norma giusta in via di principio diventi una sorta di legge taglia servizi essenziali occorre intervenire sulla disciplina, chiarendone i contorni: stabilendo cioè le necessarie regole di omogeneizzazione e alcune esclusioni di puro buon senso. Sarebbe importante, inoltre, prevedere una gradualità di rientro, piuttosto che imporre una sanzione draconiana che, realisticamente, rischia di rappresentare più uno stimolo all’elusione che non l’incitamento a conseguire l’obiettivo di contenere il costo del lavoro nei Comuni.


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