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Lavoratrici in congedo più tardi ma con la flessibilità d'uscita
ANALISI

Anche ammesso che il ritrovato equilibrio del sistema pensionistico non abbia bisogno di nuovi interventi, è arduo immaginare che – per la sua consistenza nell’ambito della spesa pubblica – il settore della previdenza non sia chiamato a fornire un contributo ad una manovra che, da oggi al 2014, dovrebbe portare al pareggio di bilancio. Per tanti comprensibili motivi, maneggiare la materia delle pensioni richiede cautela e gradualità. Rimane, tuttavia, aperto, nell’ordinamento, la questione dell’età pensionabile di vecchiaia delle lavoratrici del comparto privato, ancora ferma a sessant’anni come maturazione del diritto (a cui si aggiungono, rispettivamente per il lavoro dipendente e autonomo, un anno e 18 mesi per l’esercizio del diritto stesso: le cosiddette “finestre”). Un graduale allineamento con il requisito anagrafico previsto per i lavoratori (65 anni) comporterebbe risparmi importanti, stimabili intorno ad un miliardo di euro l’anno. È un passo che il Paese deve compiere, anche sul piano culturale, introducendo, a compensazione, nuove e più adeguate forme di tutela durante la vita lavorativa per i periodi di maternità e di cura. Prima che siano la Corte costituzionale o quella europea a pretenderlo. Vi sono, però, delle circostanze, nel caso italiano, che vanno tenute presenti per agire con equità ed equilibrio. Nell’Inps, nel corso del 2010, sono state liquidate 174.729 pensioni di anzianità di cui 110.844 a dipendenti con un’età media alla decorrenza di 58,3 anni e 63.885 a lavoratori autonomi con età media di 59,1 anni. Tra i dipendenti, i maschi erano 84.080 pari al 75,9% (con un’età media di 58,5 anni), le femmine 26.764 pari al 24,2% (con un’età media di 57,5 anni). Tutt’altra musica per i trattamenti di vecchiaia dove è stata – come sempre – assolutamente prevalente la componente delle lavoratrici, con 69.171 prestazioni (il 67,9% a fronte del 32,1% in quota lavoratori) ad un’età media di 60,8 anni. Trend assolutamente analoghi – per anzianità e vecchiaia – anche nel settore del lavoro autonomo. In sostanza, mentre la pensione di anzianità si qualifica come un trattamento in larga misura riservata ai maschi, il trattamento di vecchiaia rimane una prerogativa (forzata) per le donne. Questa differenza non è determinata dalle norme, ma dalla condizione di fatto dei due generi nel mercato del lavoro. Mentre le coorti dei lavoratori maschi andati in quiescenza, negli ultimi anni, sono state in grado di far valere una «carriera» più solida e continuativa che ha consentito loro di maturare il requisito contributivo richiesto per il trattamento anticipato (con 35 anni circa di versamenti) prima dei sessant’anni (a regime saranno richiesti almeno 61 anni e quota 97), le donne, avendo una storia lavorativa più breve, discontinua e frastagliata, finiscono per dover attendere l’età di vecchiaia quando sono sufficienti, nel sistema retributivo, 20 anni di contribuzione. Se si vuole evitare che tra qualche anno – una volta parificata l’età di vecchiaia – al netto delle «finestre», la grande maggioranza delle lavoratrici del settore privato sia costretta ad andare in pensione di vecchiaia a 65 anni, mentre gran parte dei lavoratori continui ad avvalersi del trattamento di anzianità a 61 anni, occorre ripristinare un sistema di pensionamento unificato per tipologia e genere, con un range flessibile all’interno di una fascia compresa tra 62/63 e 67/68 anni e ragguagliata sia ai coefficienti di trasformazione, sia all’aggancio automatico alle dinamiche demografiche. Si potrà così ad incrementare l’età effettiva di pensionamento, ad incentivare – disincentivare le scelte individuali, pur consentendo ad esse di esprimersi liberamente. È una soluzione da assumere sicuramente nel modello contributivo. Ma è possibile anche per le coorti che si avvalgono dei sistemi retributivo e misto.


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