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L'Autorità contesta le gare Ales
Musei - Vigilanza sui contratti pubblici: la società del ministero non ha le caratteristiche per gestire i servizi senza gara

ROMA – Ales, la società del ministero dei Beni culturali, non ha tutte le caratteristiche per essere definita una società in house e, dunque, per ottenere senza gara la gestione dei servizi nei musei, come invece è finora avvenuto con due contratti sottoscritti con i Beni culturali per il valore complessivo di 24 milioni di euro. Ad affermarlo con l’articolata delibera n. 67 del 6 luglio scorso è stata l’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici, che ha mosso critiche dello stesso tenore anche nei confronti di Arcus, la società mista Beni culturali-Infrastrutture, che si è finora occupata di investire in progetti culturali la quota di risorse provenienti dai finanziamenti per le grandi opere. Le censure dell’Autorità colpiscono, però, soprattutto Ales, nata nel ’98 per impiegare circa 400 lavoratori socialmente utili – all’epoca la società era posseduta al 70% da Italia Lavoro Spa e per il 30% dai Beni culturali – e che nel 2009 è stata rilevata interamente dal ministero, il quale nel gennaio 2010 ne ha modificato lo statuto ampliando notevolmente l’oggetto sociale, aprendolo, tra l’altro, al mercato internazionale e includendo anche attività come il merchandising nei luoghi d’arte, l’editoria, la pubblicità e la promozione di eventi culturali. E questo in concorrenza con le aziende che già operavano nel settore. Con l’indubbio vantaggio, però, che configurandosi come società in house del ministero, Ales ha potuto accedere alle concessioni saltando qualsiasi selezione. Per questo le imprese private hanno chiesto lumi all’Autorità. In particolare, è stata Confcultura, l’associazione che riunisce i concessionari dei servizi museali, a chiamare in causa l’Authority, sottolineando la presenza sempre più ingombrante di Ales e mettendo in risalto alcuni elementi che lasciano presupporre la volontà ministeriale di affidare senza gara alla propria società spazi sempre più ampi, a partire dal fatto che solo in 23 dei 192 musei in cui le concessioni sono scadute siano stati predisposti i bandi per il rinnovo delle gestioni. L’Authority, a sua volta, ha chiesto spiegazioni al ministero, il quale ha risposto che le attività riservate ad Ales hanno sempre interessato siti culturali minori, quelli in cui i privati non hanno intenzione di lavorare perché poco o nulla remunerativi. L’Autorità ha però dato ragione ai privati. Ripercorrendo i principi che la Corte di giustizia Ue ha fissato perché una società possa definirsi in house, ha rilevato che esistono «forti elementi di criticità» sul controllo esercitato dai Beni culturali nei confronti di Ales. La Ue, infatti, chiede che la società affidataria si presenti «come una sorta di longa manus dell’amministrazione affidante». Nel caso di Ales, invece, non c’è modo di contenere i rilevanti poteri gestionali del Cda. «In altri termini – scrive l’Autorità – si osserva l’assenza di previsioni statutarie che possano limitare in modo determinante il grado di indipendenza della controllata Ales ed assicurare che le decisioni più importanti siano sottoposte al vaglio preventivo» del ministero. Inoltre, la vocazione commerciale di Ales, inserita con le modifiche statutarie del 2010, rendono ancora più precario il controllo da parte dei Beni culturali, perché sembrano «ampliare eccessivamente l’oggetto sociale rispetto alle attività strettamente attinenti al servizio pubblico di competenza del Mibac». Dunque, quelle modifiche non sono in linea con i principi dell’in house. L’Autorità ha, poi, avuto da ridire sulle modalità seguite dal ministero per individuare i musei poco remunerativi, invitando i Beni culturali a «un continuo e proficuo confronto con gli operatori del mercato, i quali, presentando all’ente concessorio un innovativo business plan, possono superare le inefficienze strategiche e gestionali dello status quo, rendendo attrativi quei siti museali tradizionalmente “fuori mercato”».


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