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Effetto domino per l'autotutela sugli swap locali
Derivati. Dopo il Consiglio di stato

MILANO – Dal Comune di Milano, al centro della battaglia civile e penale con Deutsche Bank, Depfa Bank, Ubs e Jp Morgan con cui ha messo in piedi la mega-operazione in derivati nel 2007, a quello di Firenze, che a marzo ha annullato in autotutela i propri derivati sottoscritti nel 2006 con Merril Lynch, Ubs e Dexia, dalla Regione Toscana al Lazio, c’è mezza Pubblica amministrazione italiana impegnata in queste ore a studiare le carte emerse mercoledì dal Consiglio di Stato. Al centro dell’attenzione c’è la sentenza (si veda Il Sole 24 Ore di ieri) con cui i giudici amministrativi hanno promosso lo stop ai propri derivati dato dalla Provincia di Pisa, che tre anni fa ha cancellato in autotutela gli swap firmati nel 2007 con Dexia Crediop e Depfa per coprire un’obbligazione da 95,5 milioni. Passata l’ondata delle sottoscrizioni e arrivata, complici le evoluzioni nella dinamica dei tassi, quella del pentimento, l’idea di cancellare i contratti tenta una buona fetta dei 467 enti territoriali che hanno in bilancio derivati per circa 33 miliardi di euro di nozionale. In effetti, per arrivare alla conclusione positiva per la Provincia i giudici del Consiglio di Stato passano attraverso tutti i temi chiave nelle controversie che stanno opponendo gli amministratori locali agli istituti di credito. Il primo è quello dei «costi impliciti», cioè non evidenziati nel contratto per derivati che all’inizio non hanno «valore zero», cioè non prevedono un’equivalenza fra i flussi di dare e avere. I «costi impliciti», emersi a Pisa dopo che la Provincia aveva affidato a un gruppo di tecnici il compito di passare al setaccio i propri swap, sono la base della decisione assunta dalla Provincia di annullare i contratti in autotutela, ma sono anche uno dei pilastri dell’accusa nel processo milanese; «valore zero» contestato dalle difese delle banche come ipotesi di fatto impossibile in un contratto commerciale. Il cuore della sentenza amministrativa, però, è soprattutto nel via libera all’autotutela, e nella competenza del giudice amministrativo italiano a valutarla. Gli istituti di credito puntavano a giocare la partite sul terreno inglese, previsto dalle riserve inserite nei contratti Isda, decisamente più disagevole per un ente locale italiano. Il Consiglio di Stato ha riportato il tutto entro i confini nazionali equiparando in tutto e per tutto lo stop al contratto in derivati al potere di annullamento che l’ente pubblico può mettere in campo, nel limite temporale dei tre anni, nelle procedure d’appalto, anche dopo l’aggiudicazione definitiva. L’ente locale può agire così quando deve tutelare i principi di «legalità, imparzialità e buon andamento della Pubblica amministrazione», che sono difesi dalla Costituzione (articolo 97). In questi casi, sostiene il Consiglio di Stato, le «preminenti ragioni di salvaguardia del pubblico interesse» vincono sugli «effetti su un contratto stipulato da cui sono derivanti diritti». Ovviamente l’autotutela non è generalizzata, ma ha confini precisi ribaditi dal Consiglio di Stato: «adeguata motivazione circa le anomalie» del contratto che viene cancellato, «interesse pubblico attuale» alla sua eliminazione e un orizzonte temporale che la legge 241/1990 fissa in tre anni.


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