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Il lungo addio delle province
MANOVRA BIS/Il cdm ha approvato il ddl costituzionale che solleva molti problemi applicativi

Mega unioni di comuni al posto delle province. Il disegno di legge costituzionale, approvato ieri dal consiglio dei ministri, che, per abbattere i costi della politica, prevede l’abolizione delle province appare la montagna che partorisce il classico topolino. Cancella nominalmente l’ente territoriale intermedio tra comuni e regioni, ma conferma la necessità di tale livello intermedio di governo, imponendo la costituzione di unioni di comuni che dovranno riguardare tutti i comuni facenti parte di una medesima provincia. Col rischio di creare un cortocircuito gestionale ed operativo rilevantissimo, visto che l’unione di comuni è stata pensata dal dlgs 267/2000 per consentire la condivisione della gestione di servizi di pochi e piccoli comuni, non certo per esercitare attività su un ambito territoriale così ampio come quello della provincia. Inoltre, il percorso per giungere alla definitiva estinzione delle province appare estremamente tortuoso e complicato, sì da inficiare potenzialmente gli effetti della riforma. Il disegno di legge letteralmente cancella la parola province dai vari articoli della Costituzione che menzionano l’ente. La parte più complessa, però, della riforma non è quella connessa alla soppressione dell’ente, ma quella di immaginare il livello di governo che subentrerà. Fondamentale sarà l’iniziativa delle regioni. Si prevede di premettere all’articolo 117, comma 4, della Costituzione una previsione ai sensi della quale una legge regionale, adottata previa intesa con il Consiglio delle autonomie locali istituirà «sull’intero territorio regionale forme associative fra i comuni per l’esercizio delle funzioni di governo di area vasta nonché definirne gli organi, le funzioni e la legislazione elettorale». Per legiferare, le regioni avranno a disposizione un anno dalla data in entrata in vigore della riforma costituzionale. In ogni caso, il passo di addio delle province coinciderà con la data di cessazione del mandato amministrativo delle singole province, in corso alla data di scadenza previsto per l’emanazione della legge regionale. Il disegno di legge auspica che, soppresse le province, siano contestualmente istituite le forme associative previste dalle rispettive leggi regionali. Cosa accade nel caso in cui le regioni non legiferino nei termini previsti? Le province sono soppresse comunque a decorrere dalla data di cessazione del mandato amministrativo. Per sopperire all’inerzia regionale contestualmente alla soppressione delle province, i comuni ricadenti nel loro territorio sono costituiti automaticamente in una unione di comuni, che svolgerà le funzioni di governo di area vasta già esercitate dalle province e succederà alla provincia «in ogni rapporto giuridico, anche di lavoro, esistente alla data di soppressione di ciascuna provincia». Per completare l’opera di razionalizzazione dei livelli di governo, il disegno di legge obbliga le regioni anche a sopprimere gli enti, le agenzie e gli organismi, comunque denominati, che alla data di entrata in vigore della riforma costituzionale, svolgano funzioni di governo «di area vasta», cioè di livello sovracomunale in un ambito territoriale coincidente all’incirca con i territori delle soppresse province. Le funzioni degli enti soppressi saranno assegnate alle forme associative costituite dalle regioni, oppure alle unioni di comuni generate ex lege, per il caso di inerzia da parte delle regioni nell’approvazione della legge che dovrà istituire le forme associative sostitutive delle province soppresse. In ogni caso, le regioni non potranno più istituire enti, agenzie ed organismi, comunque denominati, per lo svolgimento di funzioni di governo di area vasta. Le disposizioni del ddl si applicheranno anche alle province delle regioni a statuto speciale, fatta eccezione per quelle autonome di Trento e di Bolzano. Ed entro sei mesi dalla sua entrata in vigore una legge dello stato dovrà modificare la disciplina dell’autonomia finanziaria e tributaria di regioni e comuni, per adeguarla alla riforma. Inoltre, le amministrazioni statali razionalizzeranno la dislocazione territoriale dei propri organi periferici, adeguandola ristrutturazione delle funzioni di governo di livello intermedio. Il disegno di legge prescrive che dalla sua attuazione, una volta in vigore, «deve derivare in ogni regione una riduzione dei costi complessivi degli organi politici e amministrativi». Ma non del costo complessivo degli apparati. Gli effettivi benefici finanziari della riforma, a ben vedere, sfuggono e sembrano riferiti solo ai costi degli organi di governo. Un po’ poco per una riforma costituzionale di questa portata. L’abolizione delle province e, più in generale, la manovra bis nel suo complesso, ha compattato il fronte delle autonomie locali nel chiedere al governo un ripensamento sulle misure appena varate dal senato. Giovedì prossimo mentre i comuni consegneranno simbolicamente al governo le deleghe sull’anagrafe, le regioni faranno lo stesso con i contratti sul trasporto pubblico locale, che a fronte dei tagli non potranno più onorare. E i presidenti di provincia manifesteranno a Roma per protestare contro quella che il presidente dell’Upi, Giuseppe Castiglione, non ha esitato a definire «una decisione gravissima». Anci, Upi e Conferenza delle regioni hanno inviato una lettera all’esecutivo chiedendo «risposte chiare ed immediate». Se non arriveranno, alla mobilitazione del 15 settembre ne seguirà un’altra in cui, come ha annunciato il rappresentante dei governatori Vasco Errani, «tutti gli enti locali si impegneranno a rendere ancora più chiare le gravissime conseguenze della manovra su cittadini e imprese». Gli enti locali sono uniti anche nel chiedere l’istituzione di una commissione mista, fortemente voluta dall’Anci, sul riordino della governance locale. Senza dimenticare il Codice delle autonomie che va riscritto «con un’operazione verità che definisca le competenze dei diversi livelli di governo e verifichi la disponibilità di risorse adeguate». Un’apertura al dialogo nei confronti degli enti è arrivata dal ministro per gli affari regionali, Raffaele Fitto. «Comprendo le preoccupazioni delle regioni e di tutto il sistema delle autonomie. La volontà del governo ad avviare un confronto, e non un conflitto istituzionale, con le regioni e gli enti locali non è mai venuta meno e continuerà dopo l’approvazione della manovra».


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