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Un pareggio di bilancio allargato
Costituzione/1

Il pareggio di bilancio è la stella polare di ogni buon ministro del Tesoro. Mito più che realtà. Non a caso, in Italia solo Minghetti portò, nel 1875, il bilancio in pareggio. Ma durò poco e non ci riuscì nessun’altro, da 136 anni. Logico dunque che, nei momenti di difficoltà, lo s’invochi e si cerchi di applicarlo concretamente. In realtà non sarebbe necessaria nessuna legge per attuare un semplice principio di buonsenso ma, tenendo conto che il più delle volte il buonsenso va “aiutato”, una prescrizione normativa può servire alla bisogna. A condizione che non finisca nel novero delle “grida” e non possa essere elusa. Quindi non basta statuire il principio nella legge di contabilità, è più saggio inserirlo direttamente in Costituzione; in modo che le ordinarie leggi di bilancio o di spesa non lo possano ignorare e che, in caso di violazione, possa intervenire la Corte costituzionale. L’idea non è nuova. Basti pensare alle proposte della scuola americana del cosiddetto costituzionalismo economico, proposte riprese anche in Parlamento da noi, ad esempio da chi scrive a partire dal 1998. Il fatto dunque che il Consiglio dei ministri abbia approvato un disegno di legge di modifica della Costituzione in questa travagliata materia non può che essere salutato con soddisfazione. La circostanza poi che anche gli altri Stati della zona euro abbiano adottato o stiano approvando analoghe misure costituisce la migliore dimostrazione dell’esistenza di un reale spirito costituzionale europeo che va al di là di qualunque interesse contingente di questo o quel Paese. Per fugare ogni possibile equivoco, occorre tuttavia essere estremamente chiari circa ciò che s’intende con l’espressione “bilancio in pareggio”. Infatti ogni bilancio (il termine stesso richiama la stadera, dove pesi e merce devono porsi al medesimo livello) è per definizione in pareggio. Il problema è vedere da cosa sono formate le voci dell’entrata e della spesa. Per troppi anni parte consistente dell’entrata è stata composta da accensione di prestiti – cioè nuovi debiti – per far fronte a spese correnti. L’equilibrio formale era salvo, ma nel frattempo s’impegnavano le risorse che si sarebbero dovute realizzare in futuro per spendere oggi. E se il meccanismo può funzionare in periodi ordinari, quando serve a incrementare il capitale fisso – come è il caso di chi sottoscrive un mutuo per pagare la casa – è folle se è utilizzato per assumere nuovi impiegati o per aumentarne le paghe. Precisare che per pareggio s’intende la corrispondenza del valore di tutte le spese a quello di tutte le entrate fiscali ed extrafiscali, a eccezione di quelle di carattere straordinario, di quelle derivanti dall’alienazioni di beni immobili e di partecipazioni, nonché di quelle provenienti da accensione prestiti, potrebbe essere utile. Quanto al ricorso al debito, che ordinariamente non può essere criticabile per le spese d’investimento – salvo ovviamente intendersi su ciò che queste significhino e sapendo che esse non possono certo ricomprendere alcuni sussidi di disoccupazione – in periodi eccezionali come questo può essere ragionevole escluderlo in linea di principio, nella consapevolezza tuttavia che tale scelta potrebbe comportare effetti sul tasso potenziale di crescita. Un secondo tema riguarda il fatto che il bilancio dello Stato non è più significativo. Oggi lo Stato, pur essendo il soggetto che ne risponde a livello europeo per la totalità, intermedia circa la metà della spesa pubblica. Il resto è effettuato da Regioni, Province, Comuni ed enti previdenziali. Se pareggio deve essere, questo deve riguardare il complesso della spesa pubblica. Le attuali circostanze richiedono un ripensamento nella gerarchia dei valori costituzionali a favore della messa in sicurezza delle finanze pubbliche rispetto alla salvaguardia dell’autonomia finanziaria di tutti i soggetti che compongono il settore pubblico. Ma la madre di tutte le riforme costituzionali è il rafforzamento dell’attuale quarto comma dell’articolo 81, quello che prescrive che le leggi che aumentano la spesa o riducono le entrate debbano trovare i mezzi per farvi fronte. Si tratta dell’articolo più eluso della nostra Costituzione. Quante volte il principio della copertura finanziaria è stato onorato nella forma e vilipeso nella sostanza: quando si sono decise spese aumentando il debito, o quando si è fatto finta che un beneficio riguardasse poche persone mentre invece era destinato a tanti, o quando infine ci si è illusi che un intervento valesse 100 quando in realtà costava mille? Tenere sotto controllo lo stock dei bilanci e magari cercare di ridurre la massa del debito è indispensabile, ma è obiettivo che non potrà avere successo se non si tira il freno a mano della spesa. Bloccare per un periodo (un biennio?) gli aumenti spontanei della spesa pubblica, quelli che derivano dai meccanismi automatici e dagli effetti dell’inflazione, e non decidere nuove spese salvo casi eccezionali e previa contestuale riduzione di altre spese in corso non è un optional. Il bilancio pubblico non è diverso da quello di una qualsiasi famiglia: non si può spendere più di quanto si guadagna. Come fare? Se la Costituzione stabilisse che non si possono finanziare le spese a debito, se non si trovano altre spese da tagliare non si può far altro che incrementare la tassazione. E se la Costituzione stabilisse che ogni aumento d’imposte deve essere approvato con la maggioranza dei due terzi del Parlamento, il gioco sarebbe fatto. Niente lievitazione della spesa e rapida messa in sicurezza dei conti pubblici. Senza trascurare il fatto che frenare le tasse vuol dire più risorse private per lo sviluppo.


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