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Sette mesi per vendere 138 tra caserme e forti
Difesa. Nella manovra la procedura speciale

La Difesa terrà strette le sue caserme. Di fatto, dopo l’ondata di cessioni tra il 2008 e il 2011 (800 immobili al Demanio e 1.070 al federalismo, da cui la Difesa non ha ricavato nulla), il patrimonio cedibile (attualmente 138 immobili) servirà a raccogliere denaro con scelte fatte di volta in volta e, soprattutto, con procedure specialissime, che potranno superare i veti e le lentezze dei Comuni. Le modifiche apportate alla manovra di Ferragosto in sede di conversione in legge, infatti, hanno reso più lineare e vantaggioso il passaggio alla Difesa di una parte del ricavato dalla vendita dei 138 beni (il 32 per cento, anche se solo per reinvestimenti), ma soprattutto contengono un meccanismo per “saltare” l’autonomia dei Comuni sulle variazioni di destinazioni d’uso, senza le quali i beni restano assolutamente invendibili. Le caserme devono infatti ottenere una o più destinazioni d’uso del tutto nuove: uffici, esercizi commerciali, alberghi, residenziale. Ma è proprio nelle trattative infinite tra Comune, Difesa, Demanio e investitori che si sono arenate quasi tutte le cessioni sinora tentate, ultima quella delle Caserme di Bologna e Albenga. La nuova norma (articolo 3, comma 12, in vigore da oggi) rappresenta un grimaldello per forzare le resistenze dei municipi. Una volta individuati i beni da «valorizzare», potrà essere convocata una conferenza di servizi o le parti per un «accordo di programma». Questa soluzione consentirebbe alla Difesa di procedere cercando direttamente investitori per stipulare con i rappresentanti degli enti locali (il Comune) l’accordo, in modo da ottenere poi l’approvazione delle eventuali variazioni urbanistiche in esso contenute come, appunto, il cambio di destinazione d’uso. Questa prima fase della procedura dura 180 giorni. La seconda, cioè l’approvazione in Comune, solo trenta. Attenzione: trascorso questo ristretto termine senza delibera, la determinazione (per la conferenza di servizi) o il decreto (per gli accordi di programma) si intendono comunque approvati. E la variante urbanistica scatta senza il sì del Comune ma solo con il parere favorevole del suo rappresentante all’accordo di programma. La norma, del resto, sta già suscitando sospetti d’incostituzionalità. Questa, tuttavia, è la chiave di volta della politica di autofinanziamento della Difesa, sottoposta a tagli tali da renderla praticamente inefficiente: «Facciamo un esempio solo sui “consumi intermedi” – spiega il sottosegretario Guido Crosetto – cioè alimentazione del personale, addestramento, vestiario, manutenzione di caserme e mezzi: nel 2004 avevamo 4,6 miliardi, oggi sono 1,2 e scenderanno a 800 milioni. E solo le bollette energetiche sono a 650 milioni. Meglio scendere da 330mila a 260mila dipendenti, a questo punto». Dismettere caserme a poco a poco potrebbe essere una soluzione parallela (finché non si svuota il forziere) ma è chiaro che i tempi diventano importanti, soprattutto per gli investitori. «L’attuale percorso delle valorizzazioni passa dai Comuni e qui tutto si incaglia per un periodo da tre a dieci anni» dice Crosetto. In questo contesto anche la vendita dei 3.020 alloggi di servizio agli attuali occupanti, con una procedura che dovrebbe partire a giorni (la partita è aperta dal 2003, quando si parlava di 4.500 alloggi), rappresenta solo un po’ d’ossigeno.


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