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Mini-enti e province, serve un percorso unitario
L'analisi

Il legislatore non sembra avere tenuto conto dell’evidente collegamento fra le misure relative ai piccoli comuni contenute nella manovra-bis e quelle, affidate a un disegno di legge costituzionale, che prevedono l’abolizione delle province. L’art. 16 del dl 138 prevede una decisa «razionalizzazione» delle modalità di esercizio delle funzioni comunali. Ai comuni con meno di 1.000 abitanti viene imposto di gestire mediante unione la generalità delle funzioni amministrative e dei servizi pubblici. Per quelli con popolazione compresa fra 1.000 e 5.000 abitanti l’obbligo di gestione associata, tramite unione o convenzione, riguarda le sole funzioni fondamentali, anche se è riconosciuta loro la facoltà di aderire alle unioni «generaliste» previste per i micro-comuni. Il ddl costituzionale approvato la scorsa settimana dal consiglio dei ministri dispone la sostituzione delle attuali province mediante l’istituzione, con legge regionale, di forme associative fra i comuni per l’esercizio delle funzioni di governo di area vasta. In caso di inerzia delle regioni, è previsto che i comuni ricadenti nel territorio delle province soppresse siano costituiti in unione per lo svolgimento delle medesime funzioni. Lo strumento prescelto dal legislatore (ordinario e costituzionale) è in entrambi i casi quello dell’aggregazione dei comuni, soprattutto nella forma dell’unione, oltre che della convenzione. Sarebbe stato logico, pertanto, definire un percorso di riforma unitario, cercando fin da subito di creare le opportune sinergie fra le forme associative preposte all’esercizio delle funzioni comunali e di quelle di area vasta. Che ciò sia opportuno lo dimostra l’esperienza dell’associazionismo comunale, che negli anni ha visto assai raramente nascere aggregazioni di enti a cavallo fra più province, cosa invero possibile a legislazione vigente, in quanto non vietata espressamente dal Tuel (e addirittura espressamente prevista per le comunità montane). Stupisce, quindi, che lo stesso legislatore abbia optato per due provvedimenti separati, per di più caratterizzati da timing profondamente diversi. Per i piccoli comuni sono stati dettati tempi strettissimi: quelli sotto i 1.000 abitanti dovranno dare vita alle unioni entro i prossimi sei mesi e perderanno le giunte in favore della nuova governance dell’unione allorché il primo fra essi andrà ad elezioni dopo il 13/8/2012; quelli compresi fra 1.000 e 5 mila abitanti dovranno aggregarsi entro il 31/12/2012. L’abolizione (meglio il restyling) delle province, invece, oltre a dover scontare i tempi lunghi (e le incognite) della procedura di revisione costituzionale, dovrà attendere un anno dall’entrata in vigore della legge di riforma e la cessazione dei mandati amministrativi in corso a tale data. Il rischio è che i due percorsi non convergano e che alla fine la futura revisione delle attuali circoscrizioni provinciali costringa a modificare la composizione delle unioni e delle convezioni nate (e nel frattempo magari consolidatesi) per gestire in forma associata le funzioni comunali. Cruciale sarà, al riguardo, il ruolo delle regioni, che dovranno in gran fretta (entro metà marzo, all’incirca) procedere a costituire le aggregazioni di comuni richieste dalla manovra-bis ed ancora prima (entro due mesi dall’entrata in vigore della legge di conversione del dl 138) a eventualmente modificare le relative soglie demografiche. Apparentemente meno urgente pare, invece, la riorganizzazione delle funzioni attualmente svolte dalle province. Ma alla luce di quanto osservato, sarebbe opportuno che le regioni affrontassero organicamente le due problematiche, in modo da minimizzare il già evidenziato rischio di dover ricorrere più avanti a provvedimenti correttivi.


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