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L'agonia dei piccoli Comuni
Enti locali. Con i nuovi vincoli approvati dalla manovra bis nessuno vorrà diventare sindaco in un minimunicipio

La manovra bis predisposta in tutta fretta dal Governo col DL 138 /2011 e varata definitivamente dal Parlamento la scorsa settimana ha dato un duro colpo all’autonomia gestionale dei piccoli comuni, in special modo quelli fino a mille abitanti. Con l’articolo 31 è stata introdotta una nuova normativa ordinamentale che ha modificato radicalmente consolidate norme previste dal vigente Testo Unico degli Enti locali e rafforzato gli obblighi in tema di associazionismo forzoso introdotti di recente. Il nuovo testo oltre a ridurre gli organi dei piccoli Comuni, sancisce la fine dell’autonomia gestionale degli enti fino a mille abitanti e ne limita fortemente la portata per quelli fino a 5.000 mentre prevede regole più stringenti per tutti, piccoli o grandi che siano, per permessi e riunioni. Un primo passo verso la fusione forzata e la conseguente riduzione dei centri di spesa? Probabilmente sì, perché fare il sindaco di un mini comune solo per esercitare le funzioni di ufficiale di governo, di autorità sanitaria locale o di pubblica sicurezza non sarà certo esaltante per nessuno. E ciò specialmente se si considera che per svolgere questi ruoli sarà necessario attingere risorse non più dal proprio bilancio ma da quello dell’unione di comuni cui si aderisce e servirsi di personale assegnato alla stessa Unione. Quanto si potrà andare avanti così? Certamente poco. Ma forse a tutto ciò una scappatoia si può anche trovare. Quella richiesta e ottenuta dall’Anpci negli incontri avuti recentemente con il sottosegretario Gianni Letta e col ministro Roberto Calderoli: poter attivare le convenzioni tra enti locali (ex articolo 30 del Testo Unico), sia pure per tutte le funzioni comunali. In tal modo non sussisterebbe più l’obbligo di entrare nelle Unioni e si continuerebbero a valorizzare risorse umane e strumentali proprie. Però, se i Comuni piccolissimi piangono, non ridono certamente quelli fino a 5.000 abitanti. Anche per loro c’è l’obbligo di esercitare le sei funzioni fondamentali previste dall’art. 21 della legge 42/2009 sul federalismo fiscale in ambiti territoriali fino a 10.000 abitanti. Si tratta, in pratica, di quasi tutti i servizi comunali finora espletati in maniera autonoma, con un’unica consolazione: si continuerà a mantenere un bilancio proprio, asfittico sì, ma pur sempre autonomo. Un bilancio che, dulcis in fundo, dal 2013 sarà sottoposto al famigerato patto di stabilità. Prospettive non rosee, quindi, per nessuno. E questo a meno che la forte pressione esercitata dalle associazioni e dai sindaci, nelle sedi istituzionali come nelle piazze, non induca il Governo a riaprire una dibattito franco e serio sul futuro delle autonomie locali. Un dibattito al di fuori dell’emergenza attuale che porti a considerare tutte le sfaccettature di una vicenda molto complicata che non si può gestire o modificare a colpi di decreti. La discussione parlamentare ancora aperta sulla carta delle Autonome o la stessa Commissione paritetica tra Governo – regioni – province – comuni prevista dall’ordine del giorno votato dalla Camera dei Deputati la scorsa settimana potrebbero essere le sedi ideali per migliorare una normativa non certo esaltante per nessuno e che probabilmente non otterrà i risparmi previsti.


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