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Ora il merito serve solo a punire chi sbaglia
L'ANALISI

Oltre che alla busta paga e al morale di quasi tre milioni e mezzo di dipendenti pubblici, la gelata triennale (per ora) sugli stipendi di chi lavora per lo Stato e per gli enti territoriali ha assestato un colpo durissimo anche alla «meritocrazia» nelle amministrazioni, disegnata dalla riforma Brunetta che giovedì compie due anni. Il ministro della Pubblica amministrazione ha difeso con le unghie il principio della differenziazione dello stipendio in base all’impegno e ai risultati di ogni dipendente, rintuzzando punto per punto gli assalti che dall’Economia avrebbero voluto azzerare tutto in attesa di tempi migliori. La durezza della crisi del debito, che dopo le manovre estive minaccia di paralizzare gli stipendi pubblici ancora per lungo tempo, ha però permesso di accantonare solo pochi resti della «valutazione totale» ipotizzata dalla riforma del 2009, con le pagelle assegnate a ogni dipendente chiamate a distribuire quote importanti di reddito (e di motivazioni). Certo, c’è il «dividendo dell’efficienza», alimentato dalle risorse che si risparmiano con l’applicazione delle diverse norme imposte per la riorganizzazione degli uffici, ma secondo le stime dello stesso ministero racimola circa il 3 per mille della massa salariale (500 milioni su 170 miliardi), e non riguarda direttamente le oltre 500mila persone che lavorano in Regioni ed enti locali: per loro, c’è bisogno di un accordo parallelo, ma già quello sulla pubblica amministrazione centrale (con la Cgil che si è sfilata in polemica) mostra tutte le difficoltà della partita. C’è poi la possibilità di differenziare le proroghe dei blocchi a turn over e stipendi riservando regole più favorevoli alle amministrazioni «migliori», con criteri da individuare consultando i sindacati, ma al momento si tratta di una promessa. Rispetto alle pagelle individuali, che avrebbero dovuto distanziare anche del 20-30% lo stipendio dei migliori da quello dei peggiori, siamo su un altro mondo. Per ora, insomma, i problemi pesano più degli auspici. Lo sanno bene, per fare solo un esempio, i ricercatori universitari a inizio carriera. Sono i più colpiti dal blocco degli stipendi universitari, che a loro (con stipendi da 1.500 euro al mese) costano il 32% del reddito in termini di mancati aumenti, contro il 6% “pagato” dagli ordinari con buona anzianità. Il ministero dell’Università ha promesso da un anno di ritoccare la norma, ma fino a quando non arriverà il decreto attuativo della riforma Gelmini, il loro stipendio non si muoverà di un euro. L’unica meritocrazia che regge, allora, è per il momento quella delle sanzioni. Si taglia fino al 30% la retribuzione di risultato dei dirigenti degli uffici che non centrano i target di risparmio (in una prima ipotesi si era addirittura pensato di punire tutti i dipendenti dell’amministrazione), e si colpisce la busta paga di chi non vigila sui rimborsi per le trasferte o l’utilizzo di auto blu. Il bastone è in azione, la carota latita: a chi lavora nella Pa, per trovare motivazioni non restano che fattori «immateriali», come quelli rivendicati dal gruppo di dipendenti pubblici che sta raccogliendo adesioni al «Manifesto per l’orgoglio della Pa».


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