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Associazioni di imprese con codice etico

Le imprese dovranno condividere codici etici contro la criminalità e la mafia, se vorranno aderire ad associazioni rappresentative. Questo è l’impegno che – entro il novembre 2012 – le associazioni degli imprenditori dovranno attuare, realizzando quanto previsto dall’articolo 3 comma 4 dello Statuto delle imprese (di imminente pubblicazione in Gazzetta). Il dovere etico di rifiutare rapporti con organizzazioni criminali o mafiose sarà imposto come clausola obbligatoria degli statuti delle varie associazioni (dell’industria, del commercio) e sarà, quindi, imposto ai singoli associati. Le singole imprese aderenti all’associazione, qualora non collaborino con denunce a combattere estorsioni, usura ed altri reati di stampo mafioso, subiranno sanzioni sul piano associativo, sino all’espulsione. 
A fronte di quest’impegno, le associazioni offriranno assistenza contro le attività illegali, cioè un supporto di tipo organizzativo e giudiziario, agevolato oggi dall’articolo 4 dello stesso Statuto delle imprese, con possibilità, ad esempio, di costituirsi parte civile in sede penale. L’innovazione – all’articolo 3 dello Statuto delle imprese – si comprende valutando il complesso delle misure tendenti ad arginare la criminalità organizzata: si va dalle white list delle imprese «non soggette a rischio di inquinamento mafioso» (articolo 4 comma 13 del decreto “Sviluppo” 106/2011), ai protocolli antimafia con enti ed associazioni previsti dall’articolo 112 del codice delle leggi antimafia (decreto legislativo 159/2011), fino ai protocolli di legalità previsti dal Codice degli appalti (articolo 176 del decreto legislativo 163/2006). Al di là del termine utilizzato nell’articolo 3 dello Statuto delle imprese (“codice etico”), che sembra prevedere un ambito solo sociale delle conseguenze di una mancata denuncia sono possibili anche effetti nei rapporti con la pubblica amministrazione. Un esempio è già presente nei “protocolli di legalità”, veri e propri patti stipulati tra enti appaltanti e Prefetture, trasfusi poi nei documenti di appalto. 
Secondo tali protocolli, l’emergere di situazioni di infiltrazione mafiosa genera, oltre alla risoluzione del contratto di appalto, una penale pari al 10% del contratto. Una sanzione di matrice privatistica e contrattuale, pur derivando da violazioni amministrative e penali. 
Il quadro complessivo vede l’imprenditore stretto da una serie di norme che inizialmente erano solo penali ed escludevano sanzioni per la vittima di estorsioni, poichè agiva in stato di necessità per evitare un pericolo (articolo 55 del Codice penale). Poi si è elaborata la teoria del concorso esterno (articolo 110 del Codice penale) coinvolgendo nell’estorsione anche chi paga gli importi richiesti: in ambo i casi non si otteneva l’emersione dei reati. 
Per ottenere la denuncia degli estorsori sono quindi sopravvenute vere e proprie clausole contrattuali che impongono alla vittima di un reato (appunto, estorsione ed usura) un comportamento di denuncia, collegando l’eventuale omissione ad una sanzione economica (penale del 10% sull’appalto, per protocollo di legalità), l’esclusione da gare (articolo 176 comma 3 del codice appalti) ed – oggi – l’espulsione dalla compagine associativa (articolo 3 comma 4 Statuto imprese).


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