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Partita difficile per lo sviluppo

Le parole della cancelliera Angela Merkel a Davos suggeriscono che bisognerà aspettare fino a marzo per discutere di fondi europei sufficienti ad assicurare il salvataggio di Italia e Spagna. Altri due mesi di attesa significa che ne saranno passati 22 dalla prima approvazione del fondo di stabilità.
A essere ottimisti, tutto ciò dimostra un certo sangue freddo. In particolare se si pensa che i nostri piedi sono appoggiati su un enorme e instabile budino di 210mila miliardi di swap sui tassi d’interesse denominati in euro, cioè 25 volte l’ammontare totale dei debiti pubblici dell’area euro. Nel novembre scorso (appunto due mesi fa…) si è visto che quando gli swap hanno i brividi, tutta la casa dell’euro rischia di crollare. Non solo singoli Paesi, ma l’intero edificio, comprese le aste dei titoli tedeschi che sarebbero fallite senza l’aiuto della Bundesbank.
Tuttavia la cancelliera Merkel vuole prima mettere in cassaforte gli accordi di disciplina fiscale e presentarli su un piatto al Bundestag, a cui aveva promesso che le eventuali perdite tedesche sarebbero rimaste inferiori ai 221 miliardi di euro previsti dai fondi attuali. L’idea di ricorrere al Fondo monetario serviva ad aggirare l’ostacolo parlamentare, ma non sembra funzionare. Alla fine bisognerà leggere tra le righe del comunicato finale del Consiglio Ue di lunedì prossimo per vedere se il presidente Van Rompuy è riuscito a inserire qualcosa, per esempio un nuovo coinvolgimento della Bce, che non sia scritto con inchiostro simpatico.
Un passo avanti tuttavia Merkel sembra averlo fatto a Davos, ammettendo che la stabilità fiscale dipende dalla crescita economica. È un barlume di ragionevolezza per chi vedeva l’Europa già destinata a una spirale debito-deflazione, stile anni Trenta. Per questa ragione lunedì prossimo i capi di Governo Ue parleranno anche di sviluppo. Qualcuno penserà che ancora una volta invece di affrontare l’emergenza di breve termine, Berlino si nasconda dietro una strategia di lungo termine. Ma in fondo la crisi è nata da un problema di squilibrio nella crescita e se il futuro dell’area euro deve diventare credibile, gli squilibri devono essere affrontati.
E qui comincia il difficile. Perché a squilibrare l’edificio europeo è stata proprio la Germania, ma non con i suoi difetti, bensì con le sue capacità. Tra la concezione dell’euro e la crisi, la somma di export più import tedesco in rapporto al Pil è quasi raddoppiata diventando di molto la più alta del G-7. La specializzazione produttiva tedesca è tale da aver agganciato perfettamente il boom del commercio mondiale senza subire concorrenza dai Paesi emergenti. Berlino ha poi aumentato l’export nell’area euro, ma non l’import. Ha spostato infatti l’import sui beni di consumo cinesi, e le catene di fornitura verso l’Europa dell’Est e in particolare verso i Paesi non-euro (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca) oltre alla Slovacchia.
Con il raddoppio dei volumi di commercio, un tale spostamento di produzioni ha creato gli squilibri delle bilance con l’estero interne all’area euro. I Paesi della periferia si sono trovati direttamente in concorrenza con le produzioni a basso costo asiatiche mentre continuavano a importare dalla Germania, inevitabilmente i loro disavanzi con l’estero si sono ampliati sommandosi ai problemi di tenuta fiscale.
Nelle stesse ore in cui Merkel parlava, gli indici di fiducia dell’industria tedesca davano segni di grande ottimismo. Intanto però il resto dell’area euro stava scommettendo se la recessione durerà uno o più anni. Cambiare la struttura dell’economia europea è un progetto piuttosto ambizioso se si pensa che metà dei maggiori gruppi industriali tedeschi esisteva già all’inizio del secolo scorso. Ma almeno a Davos Merkel ha riconosciuto le responsabilità tedesche nell’incompleta attuazione del mercato unico nel settore dei servizi. È sembrato di sentire l’eco degli insegnamenti di Mario Monti nelle parole della cancelliera. Forse anche l’Italia a fianco alla discussione sulle riforme strutturali deve aprire un ragionamento sull’adeguatezza della propria struttura produttiva, da Nord a Sud.


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