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Negli uffici pubblici incognita effetti
Secondo l'articolo 2 del Testo unico lo Statuto si applica a tutte le amministrazioni centrali e locali

Sull’applicabilità o meno dell’articolo 18 ai dipendenti pubblici il Governo è caduto in un’empasse che ha costretto il ministro Fornero a “rinviare” la palla al collega alla Funzione pubblica Patroni Griffi. «Non era mio potere intervenire – ha detto Fornero –, ma non vuol dire che non interverremo». Ma oggi l’articolo 18 riguarda anche i dipendenti pubblici o no? La legge al riguardo è tranchant, quando spiega (articolo 51 del Testo unico del pubblico impiego) che lo Statuto dei lavoratori «si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti».
Da questa premessa discendono parecchie conseguenze. La prima, fondamentale, è il Dlgs 23/1993, quello che ha portato nell’ambito del diritto privato il pubblico impiego (con l’eccezione di docenti universitari, magistrati, forze armate, diplomatici e prefetti), che aveva introdotto il cosiddetto «trasformatore» per disciplinare il passaggio ordinato degli «statali» nella disciplina privata. In pratica, il principio prevedeva che la riscrittura di particolari istituti per adeguarli al mondo pubblico sarebbe dovuta intervenire entro le successive due tornate contrattuali. In caso di silenzio dei contratti, si sarebbe applicata tout court la disciplina privata, e sulle norme per i licenziamenti del personale nessuno ha fiatato. Un altro fattore importante arriva da contratti come l’ultimo siglato per l’area VI dirigenziale (agenzie fiscali ed enti pubblici non economici), in cui si prevede espressamente (articolo 13) la reintegra in caso di licenziamento illegittimo. Nei contratti per il personale non dirigente, clausole di questo tipo non sono mai state introdotte: a meno di pensare a una (paradossale) tutela più forte dei dirigenti rispetto ai dipendenti, il motivo va ricercato nella “copertura” già assicurata dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Se è così, per tenere i dipendenti pubblici lontano dalla riforma dovrebbe servire una deroga esplicita.
Deroga o meno, comunque, anche il pubblico impiego ha parecchie vie d’uscita dal lavoro, scritte nel Testo unico del 2001 riformate prima dalla legge Brunetta (Dlgs 150/2009) e poi dalla legge di stabilità approvata nel novembre scorso (legge 183/2011). La regola di più ampia portata è l’ultima, in cui si prevede che le Pubbliche amministrazioni possano dichiarare eccedenze per «esigenze funzionali» o per la «situazione finanziaria»: al personale eccedente le norme garantiscono due anni di mobilità all’80% dello stipendio dopo di che, se non c’è possibilità di ricollocazione anche in altre amministrazioni, il rapporto cessa.
Molto ricco, dopo la riforma Brunetta, è poi il capitolo «disciplinare». Oltre ai casi classici di condanne penali con interdizione o di condotte aggressive ripetute, il licenziamento può scattare per «assenza ingiustificata oltre il terzo giorno», «ingiustificato rifiuto del trasferimento» o anche per «insufficiente rendimento» (lo dice l’articolo 55 del Dlgs 165/2001 nella versione riscritta nel 2010). Per chi timbra e fugge, o produce certificati di malattia falsi, il licenziamento è senza preavviso. Fin qui le regole, altro discorso è la loro applicazione. Sulle eccedenze la legge di stabilità ha inserito anche l’ipotesi di responsabilità disciplinare per il dirigente che nicchia: nei prossimi mesi si potrà misurarne i risultati.


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