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I licenziamenti pubblici sono già a prova di giudice
E c'è una legge che, se applicata anche allo stato, escluderebbe del tutto il reintegro sul posto di lavoro

Non è possibile parlare di riforma del mercato del lavoro, e in particolare del nuovo art. 18 dello Statuto dei lavoratori, applicata al pubblico impiego senza far riferimento al nuovo articolo 33 del d.lgs. 165/2001. Il procedimento è stato novellato dalla legge 183/2011 e risulta particolarmente semplificato dal punto di vista delle causali di giustificazione del licenziamento degli statali, in quanto fa riferimento a tre fattispecie: soprannumero rispetto alla dotazione organica, eccedenze in relazione alle esigenze funzionali ed eccedenze in relazione alla situazione finanziaria. Si tratta nel settore pubblico di tre fattispecie che si fondano quasi sempre su atti formali e che costituiscono una base probatoria certa sulla quale difficilmente il giudice di merito potrebbe sindacare (come ribadito dall’art. 30, comma 1, della legge 183/2010). É utile in questa sede fare alcuni esempi. Gli atti di organizzazione e le dotazioni organiche, con le quali attestare le eccedenze, sono atti organizzativi di natura regolamentare, soggetti a formalizzazione in base alla riserva di legge di cui agli artt. 2, comma 1, e 6 del d.lgs. 165/2001.
Le esigenze funzionali potrebbero essere di carattere macro, e quindi fondarsi su una cessione di funzioni, la gestione associate delle stesse, le varie forme di esternalizzazione, e necessitano pertanto di atti formali di carattere organizzativi certi, spesso supportati da documenti di bilancio e dal parere del collegio dei revisori. Vi può essere in questo caso anche una dimensione micro e gestionale, che può avere effetti in termini di riduzione e trasformazione delle attività connesse ai processi di innovazione tecnologica e di razionalizzazione, e che potrebbe basarsi su atti gestionali formalizzati come piani della performance, di informatizzazione o i piani di razionalizzazione di cui all’art. 16 del DL 98/2011. La terza fattispecie, di particolare gravità e attualità nell’attuale periodo storico, riguarda le eccedenze per situazioni finanziarie.
Qui i numerosi tetti di spesa sul personale e l’irrigidimento delle misure sul patto di stabilità rendono chiari, insindacabili e inderogabili i presupposti per i quali ci si può trovare di fronte a gravi situazioni finanziarie. Alcuni casi sono ad esempio: il non rispetto del tetto di spesa per il personale, il taglio significativo dei capitoli di funzionamento e per le locazioni degli stabili, il mancato rispetto del patto di stabilità o le situazioni di deficitarietà strutturale o di dissesto.
Ovviamente l’applicazione di queste norme apre per il settore pubblico tutta una serie di problematiche mai affrontate, come ad esempio i criteri di scelta per gli esuberi. In questo caso il settore pubblico non avendo molti profili specialistici non potrebbe far affidamento sulle «esigenze tecniche e produttive», ma sui carichi di famiglia e l’anzianità, da decidere poi se anagrafica o aziendale (vedi art. 5 legge 223/91). L’impugnativa nel caso di specie potrebbe riguardare la messa in disponibilità di cui al comma 7 dell’art. 33, ma anche degli atti presupposti (atti di organizzazione e bilanci). Inoltre, il settore pubblico ha un meccanismo di gestione della mobilità attraverso gli articoli 34 e 34bis del d.lgs. 165/2001 molto procedimentalizzata ma al contempo di assoluta garanzia, ma che potrebbe generare ulteriori casi di contenzioso. Ma probabilmente il tema riguarda le politiche e i comportamenti sulla pa, in quanto il vertice politico di un’amministrazione (e quello amministrativo) si adopera sovente per mascherare le gravi situazioni finanziarie e quindi per evitare i licenziamenti, e prima ancora le sanzioni connesse al mancato rispetto delle norme di finanza pubblica. I diversi casi di fallimento di città, asl e regioni, tardivamente scoperti e ripianati dalle finanze pubbliche, sono a tutti noti.
Il paradosso circa l’applicabilità della flessibilità per il datore di lavoro, per esempio con il non reintegro in caso di mancanza dei presupposti del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, è che per gli statali non ci troveremmo di fronte a scelte di libertà aziendale, ma per la maggior parte a situazioni attestate e certificate di mutamento delle funzioni o di criticità finanziarie che ben giustificherebbero (anzi richiedono) «la riduzione o la trasformazione di attività o di lavoro». Partendo dalle fattispecie concrete quindi è possibile concludere che il datore di lavoro pubblico non avrebbe difficoltà a dimostrare la veridicità e congruenza dei casi in cui necessita ricorrere al licenziamento per giustificato motivo oggettivo economico.
Circa la scelta di applicare anche al settore pubblico questa riforma, è interessante ricordare, da ultimo, come il d.lgs. 110/2004 ha modificato l’art. 24 della legge 223/1991 in materia di licenziamenti collettivi, prevedendo per «datori di lavoro non imprenditori che svolgono, senza fini di lucro, attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione ovvero di religione o di culto» l’applicazione delle disposizioni di cui alla legge 15 luglio 1966, n. 604, cioè il pagamento dell’indennizzo in luogo del reintegro. Data questa particolare deroga, non sarebbe strano (ove non paradossalmente già ricomprendibili per i settori cultura e istruzione) immaginare di includere per questa via anche le pubbliche amministrazioni pubbliche, che certamente sono «datori di lavoro non imprenditori».


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