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Innovazione al servizio di tutti
Sanità digitale e smart city: ampi spazi per la ricerca nei settori pubblici

Negli ultimi anni, prima all’interno di Telecom Italia, poi nell’ambito delle rispettive occupazioni, abbiamo cercato di convincere amministratori, imprenditori e politici del forte nesso che lega la crescita all’innovazione. Sono sufficienti tre considerazioni: a) i Paesi più ricchi sono quelli con un’attività di ricerca e innovazione più elevata rispetto al Pil; b) la crescita della produttività è strettamente connessa alla diffusione di nuove tecnologie e di nuovi modelli organizzativi; c) dalla fine degli anni 90, la produttività italiana non è più aumentata.
Il nostro Paese registra ancora un elevato divario di capacità innovativa rispetto ai principali Paesi industriali e ad alcuni tra i Paesi emergenti più dinamici. Ma, sarebbe un grave errore ritenere che tale ritardo dipenda principalmente dalla scarsa lungimiranza delle imprese, o dall’assenza di eccellenze nel sistema di ricerca pubblica, come dimostra il successo dell’Istituto Italiano di Tecnologia di Genova. La vera debolezza del nostro sistema di innovazione sta proprio nell’assenza di tre fattori fondamentali per il suo funzionamento: 1) una cultura e una pratica diffusa della meritocrazia e dell’eccellenza, tanto nelle università, quanto nella gestione della Pa; 2) un sistema finanziario in grado di riconoscere e sostenere progetti ad alto rischio e alto rendimento; 3) una politica dell’innovazione sufficientemente stabile e lungimirante da indirizzare le strategie di investimento delle imprese.
Senza questi elementi non recupereremo mai il ritardo di capacità innovativa e non riusciremo a far ripartire la crescita della produttività. Purtroppo le riforme necessarie richiedono risorse, tempo e una determinazione che un Governo “di emergenza”, giustamente concentrato nel salvarci dall'”abisso”, avrà maggiori difficoltà a trovare.
Ma se la spesa pubblica va necessariamente ridotta e non è possibile finanziare gli strumenti per l’innovazione, è fondamentale portare l’innovazione nella spesa pubblica. Questa rappresenta circa il 16% del Pil (le acquisizioni imputabili al settore pubblico), un po’ meno della media europea (20%), ma equivalenti ad oltre 250 miliardi di euro all’anno (per confronto sono 12 miliardi gli incentivi alle imprese, di cui 4 per la ricerca e innovazione). Eppure, per anni il potenziale offerto dalla domanda pubblica (o “public procurement”) come strumento per stimolare l’innovazione è stato ampiamente trascurato in Europa e in particolare in Italia. Il confronto con gli Stati Uniti è macroscopico: gli Usa spendono circa 50 miliardi l’anno in domanda pubblica di ricerca, 20 volte più dell’Europa. Certamente la spesa degli Usa è orientata in buona parte su obiettivi di difesa, ma la domanda pubblica di ricerca nei settori della salute, dell’energia, dell’istruzione, dei trasporti e dell’ambiente è 4 volte superiore a quella europea. I risultati di questo diverso approccio sono evidenti, dallo sviluppo dei Protocolli Internet al sistema di posizionamento globale (GPS), e i numerosi avanzamenti nelle biotecnologie e nelle nanotecnologie.
In Europa, l’Italia si distingue per la scarsa diffusione del “public procurement” innovativo. Nell’ultima edizione del World Economic Forum, l’Italia si è classificata al 114° posto nel mondo in quanto alla domanda pubblica di prodotti tecnologicamente avanzati. Eppure, alcune modernizzazioni nei servizi pubblici sono impossibili da realizzare senza un diverso approccio della domanda. È il caso, ad esempio, della sanità digitale, o delle smart city, dove il bisogno sociale di nuove soluzioni per la fornitura di servizi pubblici richiede investimenti in tecnologie e soluzioni digitali ancora ad alto rischio da un punto di vista commerciale.
Anche l’Europa si è recentemente dotata di uno strumento appositamente designato, il “pre-commercial public procurement”, che riguarda prodotti e servizi innovativi non disponibili sul mercato, ma che richiedono ricerca per la loro realizzazione. Ma se gli strumenti per sfruttare il ruolo del Public Procurement come driver dell’innovazione esistono, sono ancora troppo deboli le competenze necessarie per il loro utilizzo e cioè un’elevata preparazione tecnologica dell’Autorità appaltante e un’elevata collaborazione con la comunità degli stessi fornitori. Inoltre la frammentazione della spesa in una molteplicità di enti impedisce di cogliere le economie di scala che caratterizzano l’attività di ricerca e la definizione di standard normativi e di mercato.
Se la crescita dipende dalla disponibilità di maggiori risorse, è certo che nel nostro sistema esistono ancora importanti opportunità di innovazione e di aumento della produttività che possono essere sfruttati. Ben vengano la spending review, ma senza massicce iniezioni di meritocrazia, innovazione, efficienza e continua ricerca dell’eccellenza non riusciremo a dare al Paese quel colpo d’ala e di orgoglio, di cui non possiamo più fare a meno.


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