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Servizi pubblici, punto e a capo
La decisione porta a riflettere sull'opportunità di continuare a osteggiare gli affidamenti

Merita un approfondimento particolare lo scenario dei servizi pubblici a esito dell’ennesimo accadimento che ha riguardato la materia, ovvero la sentenza della Corte costituzionale n. 199/2012. Il termine non è utilizzato per errore, poiché di reali accadimenti occorre ormai parlare in relazione a una materia, quella dei servizi pubblici locali, oggetto da ormai più di un decennio, a più livelli e a più riprese, di tentativi di riforme organiche, di correttivi in grado di modificare il precedente assetto, di una cospicua evoluzione delle discipline settoriali e regionali e, come nell’ipotesi di specie, di interventi della stessa Corte costituzionale. Ciò che deriva è un quadro desolante. Certamente non sono in dubbio i moduli gestionali dei servizi. Infatti, al di là del tentativo del nostro legislatore di limitare il ricorso alle forme dell’in house providing, non si può disconoscere che tale modello gestionale, unitamente a quelli della concessione a terzi con gara e al partenariato pubblicoprivato, rappresentino tutti dei modelli la cui validità e vigenza è un dato ormai acquisito.Ciò che, tuttavia, appare dubbio è il problematico contorno operativo entro cui sono oramai costrette a operare le amministrazioni locali e gli investitori privati e a dimostrazione di ciò si consideri lo scenario che si profila nell’immediatezza dell’intervento della Consulta, di seguito tratteggiato nei suoi principali elementi di incertezza. Mutando radicalmente i termini sottostanti a un rapporto concessorio di servizio pubblico, l’art. 4 introduceva, infatti, una rivoluzionaria attività preliminare tramite cui gli enti locali preposti e competenti all’organizzazione dei differenti servizi pubblici locali avrebbero dovuto verificare in concreto l’esistenza di un mercato effettivamente liberalizzato e, solo in caso contrario, procedere agli affidamenti dei servizi stessi sul modello concessorio. Ma è proprio in ordine a tale epocale novità, che già aveva ingenerato non pochi dubbi sulle modalità operative con le quali attuare la stessa e sulla cui disciplina erano stati introdotti svariati interventi migliorativi già nel corso del 2012, che oggi sorge il maggior dubbio interpretativo. Vi è, infatti, una incertezza assoluta in ordine al fatto che, in una eventuale e nuova riforma della materia, derivante dalla necessità di colmare il vuoto comunque lasciato dalla Corte costituzionale, la stessa novità normativa venga riproposta. Sotto altro profilo è evidente che la rimozione delle disposizioni di cui all’art. 4 produce, per l’ennesima volta, la perdita di efficacia di quelle previsioni che, come tante altre volte nel passato, avevano cercato di definire i contorni del c.d. periodo transitorio, determinando un livello di incertezza nel legittimo riassetto dei servizi e direttamente impattando anche su procedure già avviate e in corso ancor prima dell’entrata in vigore del richiamato dl n. 138/2011. Sotto altro profilo è indubbio che l’intervento della Corte non possa mai avere un carattere riformatorio dell’intero settore. Infatti, la chirurgica rimozione di talune previsioni dal nostro ordinamento determina comunque sicuri effetti impattanti nell’intero panorama normativo di riferimento. Ed è proprio con riguardo a tale aspetto che il principale e più immediato profilo di incertezza sia rappresentato dalle disposizioni di cui all’art. 3-bis del dl n. 138/2011 in tema di Ambiti territoriali e criteri di organizzazione dello svolgimento dei servizi pubblici locali. Non si dubita, infatti, della cogenza e validità di tali previsioni ma della loro concreta applicabilità allorché sono state per intero rimosse le disposizioni, appunto quelle del successivo articolo 4, che ne completavano e spiegavano il senso. Non solo. Il maggior dubbio risiede, infatti, nelle disposizioni che a vario livello e con interventi del tutto disomogenei e non organici, in ultimo lo stesso dl n. 95/2012 in tema di spending review, hanno nel tempo limitato la possibilità che gli enti locali detenessero o costituissero società pubbliche o anche miste. Proprio con riferimento a tale congerie di previsioni, in ragione delle quali sono stati introdotti nel nostro ordinamento i, più o meno labili, concetti quali quelli di società di «interesse generale», società aventi finalità strumentali e società che «erogano servizi in favore dei cittadini» fra l’altro spesso oggetto di contrastanti arresti da parte di distinte sezioni della Corte dei conti, permangono, infatti, le maggiori criticità operative. Quanto detto non solo perché dal raggio di queste non è sempre chiara l’esclusione operata con riferimento alle società operanti nel novero dei servizi pubblici locali, ma anche perché vi è da chiedersi se in un sistema che ha in ultimo riproposto e promosso gli schemi in house abbia ancora un senso, al netto di evidenti principi di contabilità pubblica, osteggiare simili fenomeni.E allora risulta evidente che probabilmente, in occasione del nuovo intervento normativo che dovrà disciplinare la materia dei servizi pubblici locali, occorrerà non solo delineare puntualmente i contorni di applicabilità di tali predette previsioni con riferimento alle società che, almeno in prevalenza, operano per lo svolgimento di servizi pubblici locali, ma forse occorrerà procedere, più approfonditamente, per verificare se il fiorire di disposizioni limitative della capacità imprenditoriale dell’ente locale, in nome di ordinari principi di concorrenza, ha ancora un suo valore. In uno scenario in cui lo stesso schema operativo dell’in house providing è stato richiesto dalla popolazione, grazie ai risultati dell’ultima tornata referendaria, e la cui validità è stata di fatto certificata dalla Corte costituzionale e che trova ordinaria applicazione a livello europeo, il legislatore italiano è ancora tenuto a proseguire in una logica osteggiante di tali schemi operativi?


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