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Gara d'efficienza per le 100 migliori utility italiane
Servizi pubblici. Il «Top award»

Più grandi sono e meglio stanno, le aziende italiane di servizi pubblici, soprattutto quando si articolano in più settori e di conseguenza differenziano fattori di ricavo e di rischio; il loro problema comune, però, è appunto il fatto di operare in Italia, cioè in un contesto caratterizzato da gap infrastrutturali storici e da un’altrettanto resistente confusione delle regole in perenne evoluzione che non riesce ad approdare a un assetto definitivo.
Sono queste tinte a emergere nel quadro delle 100 maggiori utility tricolori nell’indagine preparata dal centro di ricerca Althesys per le aziende di settore (e diretta da Alessandro Marangoni, economista della Bocconi) in occasione del Top Utility Award, il premio alle “migliori” imprese italiane di servizi pubblici che si svolgerà domani a Roma sotto il patrocinio del Quirinale.
I numeri dell’indagine che sarà presentata domani mostrano una condizione di sostanziale salute, con una redditività prima delle imposte (Ebitda) del 16% in un fatturato complessivo di 111 miliardi. Nei bilanci trovano spazio 2,7 miliardi di investimenti all’anno, con un rapporto del 2,43% che però nasconde al proprio interno comportamenti assai distanti fra di loro: il “tasso di investimenti” vola per esempio al 13,2 per cento del fatturato se si restringe il campo di osservazione alle sole aziende del servizio idrico, che infatti sono anche quelle in cui si registra il maggior indebitamento medio.
È l’intero settore, del resto, a essere contraddistinto da una marcata differenziazione fra gli attori, anche nella famiglia delle 100 aziende al top per dimensioni. Al suo interno, accanto a colossi energetici come Enel ed Eni, si trovano infatti le aziende locali attive nel servizio idrico e nella raccolta e smaltimento dei rifiuti urbani, il cui fatturato non supera le poche decine di milioni: la metà delle aziende, anzi, non supera i 100 milioni all’anno, mentre sopra al miliardo di euro si incontrano solo nove realtà divise fra energia e imprese multi-settore.
La frammentazione continua a essere insomma una caratteristica delle aziende italiane di servizi, anche se il risiko di alleanze e fusioni degli ultimi anni ha messo in campo più giocatori di peso. I casi di A2a, Iride ed Hera, solo per fare qualche nome, mostrano che questa evoluzione si è concentrata soprattutto a cavallo fra energia e multi-utility, dove del resto si incontrano i dati di bilancio più rotondi e i più elevati ritorni sugli investimenti (Roi). L’Ebitda al 16% citato prima, infatti, è in linea con la media europea di settore (15,9%), ma guardando solo i conti delle prime 10 aziende italiane per dimensione l’indicatore medio sale al 21,7 per cento. Una conferma, questa, del carattere strategico di quest’evoluzione, anche nel quadro di concorrenza con operatori internazionali aperto dalla seppur incerta via imboccata dalle liberalizzazioni italiane.
Fra tira e molla normativi, campagne referendarie, decreti e sentenze della Corte costituzionale, è proprio il versante normativo quello più critico per gli operatori. Una delle tante prove del nove può essere cercata per esempio nel settore idrico: l’elevato tasso d’investimenti si spiega con la necessità di recuperare le carenze infrastrutturali che si traducono nei tassi di dispersione degli acquedotti, ma la travagliata evoluzione normativa del settore ha colpito proprio questo aspetto, generando un’incertezza sulla remunerazione degli investimenti che ancora attende risposte dalla revisione tariffaria.


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