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Quattro correttivi per ridisegnare una tassa nata male

Con le decisioni dei Comuni sulla fissazione dell’aliquota autonoma e con l’avvicinarsi del temuto versamento della seconda rata, l’Imu sta arrivando al giro di boa del suo primo anno di applicazione. Per necessità, dati i tagli ai trasferimenti erariali, più che per scelta, i sindaci hanno deciso di aumentare con decisione, per quanto è loro possibile, le aliquote Imu. Come mostra l’analisi del Sole 24 Ore sui Comuni capoluogo di Provincia, per gli immobili diversi dalle prime case (quelli tassati all’aliquota base dello 0,76%) le delibere comunali hanno in media sfruttato per più di 2/3 i possibili margini di aumento delle aliquote (+0,21% su 0,3%). Sulle prime case le preoccupazioni redistributive e il costo politico di andare a tassare un bene così sensibile hanno spinto i sindaci a decisioni assai più caute: l’autonomia comunale ha accresciuto l’aliquota base (0,4%) soltanto di un quarto dello sforzo fiscale possibile (+0,05% su 0,2%). In termini di efficienza generale del sistema fiscale l’aumento del prelievo sugli immobili realizzato attraverso l’Imu è stato una scelta opportuna. A parte l’aver riportato la prima casa a tassazione patrimoniale, sanando così un’eccezione tutta italiana, l’Imu risponde all’esigenza di raccogliere gettito per l’aggiustamento della finanza pubblica in modo “meno nemico per la crescita economica” rispetto alle possibili alternative, la tassazione del lavoro o quella delle imprese. Oggi, dopo l’Imu, il nostro prelievo sulla ricchezza immobiliare è in termini di composizione sul gettito tributario complessivo essenzialmente in linea con gli altri paesi Ue. Se però si vanno a vedere gli effetti sui singoli contribuenti o sui singoli territori, e quindi i profili di equità, l’Imu mostra drammaticamente la corda. L’aumento del prelievo è stato infatti costruito su una base imponibile malata, quella dei valori catastali. Come è ben noto i valori di mercato degli immobili sono di molte leghe superiori a quelli catastali (3,73 volte di più secondo le valutazioni dell’agenzia del Territorio fatte prima dell’Imu). Ma il problema non sta tanto nel livello dell’asticella (a cui si potrebbe rimediare, come ha fatto del resto la riforma Imu, moltiplicando i valori catastali attuali per coefficienti fissi più elevati) quanto piuttosto nella drammatica differenziazione di questo divario tra territori e tra immobili di diverso valore che crea disparità di trattamento divenute oggi inaccettabili. L’emergenza che l’Imu ha fatto esplodere è dunque innanzitutto quella dell’iniquità del tributo causata dall’obsolescenza del nostro catasto immobiliare. Giustamente, dunque, la delega per la riforma fiscale in discussione al parlamento ha un suo pilastro fondamentale, forse quello più compiuto, proprio nella revisione organica del catasto. Non è certamente la prima volta che ci si prova. L’allineamento dei valori catastali con quelli di mercato, se mai si realizzerà, avrà forti effetti redistributivi, lasciando sul terreno, a parità di gettito complessivo, vincitori e vinti tra i diversi Comuni e i diversi contribuenti. Ciò significa che per arrivare effettivamente al traguardo (comunque non prima di due o tre anni) la riforma del catasto avrà bisogno di un forte sostegno politico. Tuttavia, questa volta, c’è un puntello in più sul piano tecnico, nei metodi di stima dei valori immobiliari proposti dalla delega e nell’esperienza dell’Omi accumulata in questi anni, entrambi coerenti con le best practice internazionali. I sindaci hanno in qualche misura dimostrato consapevolezza che il terreno su cui è costruita la loro autonomia tributaria è minato dalle iniquità della base imponibile. Per porci su almeno una pezza hanno usato creatività e fantasia. Ecco allora chi ha differenziato le aliquote sulle abitazioni a seconda che siano di lusso o ordinarie, chi ha tarato la detrazione per la prima casa sul livello di reddito del proprietario o sul suo Isee, o ancora sul numero degli immobili posseduti nel territorio comunale. Sono poco più di pannicelli caldi, bandiere da sventolare, talvolta criticabili sul piano della razionalità del tributo, che cercano invano di porre riparo a un sistema di valori catastali che è invece da rifondare. Nel cantiere dell’Imu quello del catasto non è però l’unico punto critico su cui lavorare. La riforma Imu ha accresciuto il cuneo fiscale su chi dà in locazione (per la “patrimonializzazione” dell’Irpef sui redditi figurativi da fabbricati), con il risultato di contribuire a rendere ancor più asfittica l’offerta di abitazioni in locazione e di spingere ancor più verso il mercato irregolare. Ci sono poi due problemi fondamentali di coordinamento che vanno risolti. Il primo è quello interistituzionale, tra Comuni e Stato. L’Imu è, e deve continuare a essere un’imposta comunale. Solo l’urgenza del momento ha spinto il decreto salva-Italia a scavare dentro l’imposta una componente di gettito statale. Questa va rimossa perché fiacca alla base l’accountability dei sindaci rispetto ai propri cittadini e crea disincentivi alla riduzione autonoma delle aliquote. Ma questa è un’operazione complessa perché va coordinata con un tassello fondamentale, ancora mancante, del federalismo fiscale, che è il sistema perequativo dei Comuni. Il secondo piano di coordinamento necessario è quello con il sistema tributario generale. Gli ultimi interventi fiscali hanno introdotto nel nostro sistema componenti diverse di tassazione patrimoniale: insieme all’Imu, il bollo sui prodotti finanziari, l’imposta sul lusso, l’imposta sulle attività all’estero. Si discute dell’opportunità di introdurre un’imposta patrimoniale omnicomprensiva, personale e ordinaria, con ampie franchigie, sull’esempio dell’Isf francese. In questa prospettiva, la domanda è: in che modo garantire coerenza all’intero comparto del prelievo patrimoniale in via di costruzione? Come andranno coordinate la tassazione ordinaria degli immobili e la nuova patrimoniale omnicomprensiva?


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