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La malinconia delle regionali
In Lombardia Albertini stritolato tra Ambrosoli e Maroni

La campagna elettorale per le regioni langue. Stringi stringi, corre il rischio di ridursi ai manifesti e alla propaganda dei candidati che devono ancora sudarsi le preferenze. I colleghi impegnati per il Parlamento possono far ben poco per avvalorare la propria posizione: saranno i voti giunti alla coalizione e alla lista e, poi, il premio di maggioranza (nazionale o regionale, secondo quale delle due Camere) a decidere tutto.

Per entrare in un consiglio regionale, invece, bisogna ancora sudare, sgomitando sui colleghi di lista, anche perché la preferenza è unica. Il fenomeno, per essere precisi, si presenta altresì nelle ripartizioni estere di Camera e Senato, ove la preferenza si usa ancora; ma in questo caso ci sono le difficoltà logistiche a frenare: come sarebbe possibile cercare preferenze in un territorio che spazia a Melbourne al Cairo, da Tokyo a Johannesburg?

L’interesse dei mezzi di comunicazione e l’attenzione degli elettori, poi, sono chiaramente condizionati da Camera e Senato. Lazio, Lombardia e Molise appaiono al traino, quanto a campagne elettorali regionali, degli scontri nazionali. Eppure nessuno nega che, soprattutto in Lombardia, potrebbe esservi un effetto traino del voto regionale rispetto a quello nazionale, segnatamente a quello per palazzo Madama, posto che quella circoscrizione regionale assegna senatori più di ogni altra, e mai come alcun’altra risulta incerta nelle previsioni.

Una differenza si può riscontrare. Il peso dei montiani è attutito nelle competizioni regionali. Un nome d’indubbio richiamo, come quello di Gabriele Albertini, ha perso di richiamo, dalle prime discussioni sui candidati in poi. Ammesso che la Lega l’avesse sostenuto, sarebbe stato un forte candidato per il centro-destra. Standosene al centro viene sballottato dalla coppia avversaria Maroni-Ambrosoli, anche perché non c’è un elettore che possa scommettere sulla sua vittoria. E presentarsi agli elettori da perdente raffrena l’attrattiva elettorale.

Forse ancor peggio sta Giulia Bongiorno nel Lazio. Il fatto che si sia tenuta stretta la candidatura a palazzo Madama indica che non aspira nemmeno a fare la capogruppo nel prossimo consiglio regionale. Dà il proprio nome a una campagna nella quale si assiste, per ora, a una rimonta largamente insufficiente di Francesco Storace, mentre lo spazio per i montiani nel Lazio non cresce, nonostante sul Pdl gravi lo scandalo Fiorito. E anche questo motivo finisce con l’immalinconire la campagna regionale, cui si ritagliano pochi spazi autonomi.


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