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Diritto di accesso alla portata di tutti
I cittadini possono chiedere di conoscere i documenti che gli uffici hanno omesso di divulgare online

Si chiama “accesso civico” ed è la chiave di volta della nuova trasparenza a cui è chiamata la pubblica amministrazione. Sullo strumento dell’accesso – grimaldello capace di aprire i cassetti degli uffici pubblici – i cittadini hanno scommesso fin dal 1990, quando la legge 241 lo ha introdotto. Ma quel diritto, reso via via più pervasivo dalla decisioni di Tar e Consiglio di Stato, rimane comunque una leva circoscritta e destinato probabilmente a una progressiva attenuazione: il suo utilizzo è, infatti, riservato solo a chi ha un interesse concreto rispetto ai documenti che si pretende di conoscere.
L’accesso civico, invece, è alla portata di tutti, non ha bisogno di particolari motivi per poter essere azionato, è gratuito. Il solo presupposto per potervi ricorrere è che l’amministrazione non abbia pubblicato sul proprio sito i documenti indicati dal decreto legislativo 33/2103, cioè il testo unico sulla trasparenza voluto dalla legge anticorruzione (la 190 del 2012). Soltanto in quel caso il cittadino (qualsiasi cittadino) può rivolgersi al responsabile della trasparenza (figura introdotta dal decreto 33) chiedendo di conoscere i documenti non resi pubblici. L’amministrazione è tenuta a rispondere entro trenta giorni: deve mettere online i dati richiesti e informarne il richiedente. Se l’amministrazione si dimostra sorda anche all’accesso civico, il cittadino può bussare alla porta del dirigente a cui compete – secondo quanto previsto dalla legge 241 del 1990 – il potere sostitutivo in caso di inerzia degli uffici e la risposta deve arrivare entro quindici giorni.
Sull’accesso civico, dunque, si ripongono molte speranze per l’applicazione delle nuove regole sulla trasparenza. Dalle amministrazioni – che finora non hanno brillato nella pubblicità dei dati in loro possesso e che adesso si troveranno alle prese con altri impegnativi adempimenti – ci sono da aspettarsi latitanze. Il ministero della Pubblica amministrazione e la Civit (la commissione sulla valutazione e la trasparenza) dovrebbero vigilare sul rispetto delle nuove norme. Compito molto difficile, vista la quantità di enti da monitorare. Si confida, pertanto, nell’iniziativa dei cittadini, forti del potere conferito loro dall’accesso civico.
Prospettiva a cui dovrebbe, poi, dar man forte l’apparato sanzionatorio previsto per chi non pubblica i dati. Il legislatore ha, infatti, predisposto un meccanismo duplice: da una parte le sanzioni che colpiscono i dirigenti colpevoli tagliando gli accessori alla retribuzione, come i bonus legati al risultato; dall’altra, sanzioni mirate, con il pagamento di cifre che oscillano da 500 a 10mila euro e capaci di innescare conseguenze amministrative. Per esempio, nel caso della mancata pubblicazione delle informazioni sui dirigenti apicali o sui consulenti, l’omissione determina l’inefficacia degli atti di conferimento di quegli incarichi.
Le amministrazioni sono chiamate, pertanto, a una grande sfida, che non si esaurisce nella pubblicazione online dei dati. Questi ultimi, infatti, devono anche essere di qualità: l’amministrazione deve, in altre parole, garantirne l’integrità, l’aggiornamento, la completezza, la tempestività, la semplicità di consultazione, la comprensione, l’omogeneità, la facile accessibilità, nonché la conformità ai documenti originali, l’indicazione della provenienza e la riutilizzabilità (purché si citi la fonte e si rispetti l’integrità del dato). Requisiti che non possono in alcun modo rappresentare un motivo di inerzia o di ritardo per gli uffici pubblici.
Inoltre, le informazioni vanno pubblicate nel formato aperto (open data), così che tutti vi possano accedere. Anzi, viene espressamente vietata la predisposizione di filtri che inibiscano ai motori di ricerca di effettuare ricerche all’interno della sezione in cui sono contenuti i dati sulla trasparenza. Infine, i dati vanno conservati: devono rimanere sul web per almeno 5 anni o finché producono effetti.
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