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La Corte costituzionale interpellata 1600 volte su dissidi Stato-autonomie
Il ricatto della burocrazia. I conflitti sulle competenze

Dal 2002 a oggi Regioni e Stato si sono scontrati in Corte costituzionale 1.647 volte: in pratica, nel 36% delle loro pronunce i giudici della Consulta si sono dovuti occupare delle battaglie di carta bollata fra i Governi regionali e Palazzo Chigi, che in questa lotta continua può vantare una leggera supremazia: il Governo ha visto riconosciute le proprie ragioni nel 52,5% dei casi (tasso che sale al 55,6% se si guarda solo ai casi in cui l’impugnazione è partita da Roma), mentre le Regioni hanno “vinto” 47,5 volte ogni 100.

Riforme bloccate In realtà, ovviamente, non ha vinto nessuno, perché questi numeri sono parecchio espliciti nel disegnare il gigantesco conflitto prodotto dalla “sfortunata” riforma del Titolo V del 2001, realizzata da un centrosinistra che alla fine della XIII legislatura ridisegnò frettolosamente i compiti di Stato ed enti territoriali nel tentativo (fallito) di accaparrarsi un po’ di consensi federalisti allora in forte crescita. Ma come sempre accade per le parole chiave che hanno accompagnato fin qui la Seconda Repubblica, le colpe sono comunque ben distribuite perché nei dieci anni successivi si sono succeduti Governi di ogni colore, politici e tecnici, che non hanno rimesso mano al problema: anzi, hanno spesso visto sprofondare nel contenzioso costituzionale molti dei tentativi di riforma progettati con lo scopo dichiarato di razionalizzare la spesa pubblica. Riforma dei servizi pubblici, privatizzazione delle società strumentali, sfoltimento di consorzi, agenzie ed enti intermedi vari sono solo le ultime vittime di un gorgo che in passato ha inghiottito anche parecchi tagli ai «costi della politica» e altrettante «semplificazioni»: l’ultima, caduta sotto i colpi delle obiezioni di Veneto, Puglia e Toscana accolte dai giudici delle leggi, era quella scritta dal Governo Monti nel decreto «semplifica-Italia» (Dl 5/2012) per superare i veti locali «per esigenze di tutela della sicurezza, della salute, dell’ambiente o dei beni culturali», oppure per «evitare un grave danno all’Erario».

Competenze «concorrenti»
Questo campo di battaglia perenne si accende in particolare sulle «competenze concorrenti» fra Stato e Regioni, che nell’articolo 117 della Costituzione targata 2001 comprendono anche temi come i rapporti internazionali, il commercio con l’estero, le reti di trasporto e comunicazione e l’energia. Ma dalle grandi questioni ai piccoli interessi di bottega su stabilizzazioni e pubblico impiego, è l’intera geografia delle competenze, con i suoi confini indefiniti in cui si confondono anche le responsabilità, ad aver mancato l’obiettivo di razionalizzare la spesa, trasformando il federalismo in un «policentrismo anarchico» che moltiplica i centri decisionali e le loro uscite.

La spesa
Non è una battaglia fra centralisti e federalisti, visto che la definizione di «policentrismo anarchico» è stata coniata da Luca Antonini, docente di sicuro pedigree federalista e presidente della Copaff, la commissione tecnica dedicata proprio al federalismo fiscale. Il quadro attuale, infatti, non trova nessun difensore ufficiale, ed è figlio del riformismo a strappi che ha caratterizzato gli ultimi anni, lasciando sulla propria strada parecchie incompiute. Nel panorama delle competenze indefinite, è stato regionalizzato il 60% della spesa pubblica, ma il bilancio centrale non ha perso un grammo e la somma naturalmente è volata verso l’alto: nel 2002 la spesa pubblica copriva il 47,2% del prodotto interno lordo, nel 2011 si è attestata al 50,7% e, secondo l’ultimo documento di economia e finanza pubblica, si attesterà al 51,5% a fine 2013, sempre che la dinamica del Pil non si confermi più problematica rispetto alle previsioni. Tradotto in pratica, riportare il rapporto spesa/Pil ai livelli del 2002 varrebbe 66 miliardi di euro. Ad alimentare questa evoluzione, naturalmente giocano un ruolo di primo piano i capitoli di spesa assegnati alle Regioni, a partire dalla sanità che nel 2001-2011 si è gonfiata del 47,3% (mentre l’inflazione del periodo ha viaggiato poco sopra quota 23%), ma la teoria degli esempi è sterminata: per richiamarne uno paradigmatico si può citare il turismo, la cui promozione costa un miliardo all’anno (dati Copaff) sparsi fra le Regioni, mentre l’Enit copre a stento le spese di gestione ordinaria e l’Italia arretra nelle graduatorie internazionali.

Chi paga?
Il conto arriva naturalmente ai cittadini sotto forma di tasse, come mostrano due linee parallele: il Fisco territoriale, di Regioni ed enti locali, è volato a quota 64 miliardi (+17% nel solo 2012), l’Iva devoluta alle Regioni è raddoppiata in 10 anni (53% del totale contro il 27,5% del 2000), ma il Fisco statale si è guardato bene dal ridurre la propria corsa, passando dai 342,5 miliardi di euro di entrate nel 2001 ai 445 miliardi di dieci anni dopo.


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