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Svuota province, falsa partenza
Il ddl all'esame dell'Unificata. Contrarie anche le regioni. Delrio: andiamo avanti

Gli enti locali bocciano il ddl svuota province. Per l’Upi, a fronte di 11 milioni di risparmi, il provvedimento farebbe lievitare la spesa pubblica di 2 miliardi. Per i governatori, oltre all’incertezza sui costi, il testo violerebbe le prerogative regionali in materia di unioni di comuni. Questa la posizione espressa in Conferenza unificata sul ddl Delrio che riforma l’architettura istituzionale dello stato, svuotando di funzioni le province, rilanciando le città metropolitane e obbligando i piccoli comuni all’esercizio associato di funzioni.

Solo l’Anci ha promosso il disegno di legge messo a punto dal suo ex presidente («si tratta di un provvedimento migliorabile, ma è importante che l’iter vada avanti, soprattutto nel senso dell’istituzione delle città metropolitane», ha dichiarato il sindaco di Venezia, Giorgio Orsoni) seppure con alcune correzioni in materia di unioni di comuni e incentivi all’associazionismo (si veda ItaliaOggi del 25/9/2013).

E se il no delle province, ridotte a poca cosa in attesa di essere definitivamente cancellate dalla Costituzione, appariva scontato, la stessa cosa non può dirsi per la bocciatura dei governatori che, pur ritenendo «giusta e condivisibile» l’intenzione che ha animato il ministro per gli affari regionali, hanno ritenuto «non idonea» la proposta del governo, «non solo per il mancato rispetto delle competenze legislative regionali, ma anche perché i comuni avrebbero su alcune materie difficoltà se non impossibilità a gestire le funzioni».

A preoccupare regioni e province è l’impennata di costi che deriverebbe dal ddl, in barba a tutti gli intenti di semplificazione e risparmio che lo animano. L’Upi ha provato a fare due calcoli e ha stimato che, a fronte di 11 milioni di risparmi determinati dalla riduzione dei costi della politica (per la soppressione di consigli e giunte provinciali), senza le province la spesa pubblica aumenterebbe di 2 miliardi.

A questa cifra, che da sola vale circa la metà di quanto servirebbe per evitare l’aumento dell’Iva, si arriva considerando l’aggravio di costi che il bilancio dello stato dovrebbe sopportare col passaggio della gestione degli edifici scolastici dalle province ai comuni. Si passerebbe da 107 a 1.327 centri di spesa i quali peraltro, non potendo spuntare gli stessi prezzi di favore che oggi le province si assicurano gestendo con un solo contratto di servizio da 20 a 300 scuole per ente, pagherebbero un conto molto più salato per riscaldamento, manutenzione, progettazione.

Solo la bolletta del gas lieviterebbe di 424 milioni, i costi di manutenzione crescerebbero del 20% (+176 milioni), mentre per progettare, realizzare e collaudare le nuove scuole si spenderebbero 45 milioni in più. Totale 645 milioni di euro che andrebbero sottratti dalle risorse oggi destinate alle scuole. A questi si aggiungono poi 1,4 miliardi per il trasferimento delle funzioni amministrative dalle province alle regioni. Per non parlare poi degli ulteriori costi che deriverebbero assegnando alle unioni di comuni le funzioni delle province. Per coprire tutto il territorio nazionale, secondo l’Upi, le unioni dovrebbero essere almeno 700 (oggi se ne contano 370).

«Passare da 107 province a 700 unioni», osserva il dossier dell’Upi, «farebbe aumentare in maniera incontrollata la spesa pubblica e crollare vertiginosamente l’efficienza e la qualità». Anche le regioni sono preoccupate per una possibile escalation di costi. «Tutte le regioni hanno espresso parere negativo sul ddl Delrio e non poteva andare diversamente a meno che non si riveda il testo al 90%», ha commentato Massimo Garavaglia, assessore all’economia, bilancio e semplificazione della Lombardia.

«Si tratta di un impianto che di fatto porterà ad un’impennata dei costi, come dimostra l’esempio della Sicilia che decide di abolire le province istituendo enti di secondo livello e così passa da nove province a 35. Inoltre in questo decreto l’unica cosa che cambia è il meccanismo elettivo, perché restano le province e tutto il personale, per cui non c’è risparmio alcuno, in compenso diminuisce la democrazia, perché nascono enti ibridi dove il bilancio viene redatto da soggetti non eletti dai cittadini».

Le regioni, tuttavia, si sono dette aperte al confronto a condizione che si rimetta mano al provvedimento attribuendo alla legge regionale il ruolo di regolazione delle funzioni del sistema locale e che venga riconosciuta la potestà legislativa esclusiva delle regione in materia di unioni di comuni. Il ministro Graziano Delrio, tuttavia, resta ottimista sul futuro del ddl. «Ho colto in Anci e regioni una determinazione a proseguire il cammino insieme. Sono ottimista perché il lavoro proseguirà e, visto che già nei prossimi giorni verrà avviata la discussione alla camera, credo che ci sarà l’occasione per determinare un cambiamento vero».

Ai dati dell’Upi, Delrio replica così: «Sono stati compiuti autorevoli studi, a partire da quello dell’ex ministro Giarda, che dimostrano come i risparmi minimi derivanti dall’abolizione delle province saranno tra i 700 e gli 800 milioni. I maggiori costi che l’Upi preannuncia dipendono da una premessa assolutamente infondata e cioè che i centri di costo diventerebbero circa 1.300 e che l’area vasta debba necessariamente avere economie di scala migliori di quelle comunali. Fra l’altro i comuni saranno liberi di continuare a gestire le scuole e altri servizi in assemblea provinciale, è una facoltà prevista dal nostro ddl».


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