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L'obbligo scatta a 65 anni
Con requisiti maturati entroil 2011 valgono le vecchie regole

I dipendenti pubblici che hanno maturato un qualsiasi diritto a pensione con le regole previgenti la riforma Monti-Fornero (Dl 201/2011) e che sono ancora in servizio cesseranno la propria attività lavorativa al compimento del 65esimo anno di età. È questo l’effetto immediato che avrà l’interpretazione autentica fornita dall’articolo 2 del Dl 101/2013 (decreto sul pubblico impiego, in attesa di conversione in legge).

Sin dall’entrata in vigore del Dl 201/2011 (decreto Salva Italia) la Funzione pubblica con la circolare 2/2012 e l’Inps – gestione ex Inpdap – avevano interpretato l’articolo 24 della riforma nel senso che il lavoratore con un diritto a pensione acquisito entro il 31 dicembre 2011 non potesse permanere in servizio al fine di raggiungere i nuovi e più severi requisiti richiesti dalla nuova norma.

Il Tar Lazio, con la sentenza 2446/2013, aveva annullato uno stralcio della citata circolare nella parte in cui stabiliva che la Pubblica amministrazione doveva collocare a riposo al compimento del 65esimo anno di età i dipendenti che nell’anno 2011 erano già in possesso della massima anzianità contributiva (40 anni) o comunque dei requisiti prescritti per l’accesso a un trattamento pensionistico diverso dalla pensione di vecchiaia. Nel contempo, il Tar aveva accertato il diritto del ricorrente a permanere in servizio fino al compimento del 66esimo anno, nuovo limite di età previsto dalla riforma previdenziale per il 2012. La Funzione pubblica era intenzionata a ricorrere al Consiglio di Stato al fine di vedersi riconoscere la proprie ragioni ed evitare che la riforma previdenziale non producesse gli effetti voluti dal legislatore dell’epoca.

Oltre al caso descritto, c’è un’altra possibilità di collocamento a riposo: i lavoratori potranno rimanere a casa per effetto della risoluzione unilaterale del rapporto di lavoro anche al compimento del 40esimo anno contributivo qualora tale ipotesi sia applicabile all’Ente. L’articolo 72, comma 11, del Dl 112/2008 prevede infatti la possibilità in capo alle amministrazioni di risolvere il rapporto di lavoro nei casi di raggiungimento dell’anzianità massima contributiva di 40 anni. I lavoratori in possesso della quota 96 entro il 2011, con almeno 60 anni di età e 35 anni di contributi oltre gli eventuali resti per perfezionare la quota, potranno subire il recesso da parte dell’Amministrazione al compimento del massimo requisito contributivo. Rientrano nella rete dei vecchi requisiti anche le donne nate entro il 1950 – che hanno quindi perfezionato il requisito di 61 anni vigente nel 2011 – che abbiano almeno 20 anni di contributi; si vedranno risolvere il rapporto di lavoro al compimento del limite ordinamentale di 65 anni. In altri termini, tale limite di età rimane invalicabile nei confronti di quei lavoratori con un qualsiasi diritto a pensione perfezionato entro il 31 dicembre 2011.

Eventuali prosecuzioni sono ammesse solo al fine di garantire continuità tra stipendio e assegno pensionistico nell’ipotesi in cui la decorrenza di quest’ultimo non sia immediata, oppure nel caso in cui l’Amministrazione abbia concesso il biennio di mantenimento in servizio previsto dall’articolo 16 del DLgs 503/1992.

Tale interpretazione deve ritenersi coerente poiché, per quei lavoratori che già alla fine del 2011 avevano un’anzianità contributiva non inferiore a 40 anni, il prolungamento dell’attività lavorativa avrebbe comportato benefici economici in sede di determinazione della pensione; con l’introduzione del sistema contributivo pro rata anche nei confronti di quei lavoratori che fino ad allora ne erano rimasti esclusi (soggetti retributivi con almeno 18 anni di contributi perfezionati al 31 dicembre 1995), dal 2012 tali soggetti si sarebbero visti valorizzare delle quote di pensione cui non avrebbero avuto diritto se il rapporto di lavoro si fosse risolto al raggiungimento dell’anzianità massima contributiva di 40 anni. Prima della riforma, infatti, il superamento di tale anzianità non comportava benefici diretti legati all’aumento dell’anzianità contributiva.


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