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Società pubbliche, la stretta del «Patto»
Per i manager di aziende in house con i conti in rosso prima il taglio degli stipendi, poi la revoca

Non c’è solo il blocco degli stipendi per gli amministratori delle società partecipate dei Comuni sotto i 30mila abitanti che avrebbero dovuto dismettere le loro quote entro il 30 settembre scorso. Almeno 350 società in house degli enti locali saranno chiamate a pagare pegno con l’arrivo del Patto di stabilità per le partecipate, previsto dal disegno di legge di stabilità per il 2014; al punto che se non metteranno i conti in ordine potrebbero vedere “licenziati” i propri amministratori. Dall’anno prossimo, secondo il progetto che ora è all’esame del Senato, arriverà finalmente l’estensione dei vincoli di finanza pubblica alle aziende “municipalizzate”, prevista fin dal 2008, ma finora rimasta inattuata.

Nella sua prima versione, il Patto delle società si limita a chiedere il pareggio di bilancio, in termini di margine operativo lordo oppure di saldo finanziario per le realtà che adottano la contabilità pubblica: nel mondo disordinato delle partecipate locali, però, basta questo obiettivo, tutto sommato modesto, per mettere in difficoltà un terzo delle società. I numeri sono quelli, parziali, raccolti dai censimenti condotti dal ministero dell’Economia, che nella fase di preparazione del Patto ha messo sotto esame i conti di quasi 1.300 aziende in house: in 350, cioè quasi il 30% del campione, hanno chiuso i conti in perdita. Ancora più preoccupanti i dati sull’entità complessiva delle perdite: le 350 aziende con i conti traballanti, infatti, hanno accumulato un rosso da quasi 800 milioni di euro, cioè assai di più dei 530 milioni di profitti raggranellato dalle quasi 800 aziende in utile.

Un disastro, che un censimento complessivo su tutte le realtà partecipate da Comuni e Province potrebbe peggiorare ulteriormente. I capitoli del problema sono due: alcune aziende delle grandi città, che accumulano perdite record come gli oltre 700 milioni di rosso in tre anni totalizzato a Roma dall’Atac, e la galassia delle realtà medio-piccole, che vivono in simbiosi con il Comune proprietario, non rispondono alle dinamiche di mercato e finiscono per azzoppare gli stessi bilanci dell’ente che le alimenta. Un dato, questo, riconosciuto anche da un osservatore certo non ostile agli amministratori locali: «Nelle partecipate – ha detto il presidente dell’Anci, Piero Fassino, qualche giorno fa ai sindaci riuniti a Firenze per l’assemblea nazionale dell’Associazione dei Comuni – c’è una frammentazione enorme e anti-economica, che spesso si traduce in deficit di bilancio, organici eccessivi e servizi inefficienti».

Per provare a mettere ordine in questo panorama sempre più caotico, la legge di stabilità riprende in mano le regole dimenticate nel 2008 ed estende il Patto di stabilità alle aziende più vicine ai Comuni. I vincoli cominceranno ad applicarsi alle aziende titolari di affidamenti senza gara per almeno l’80% del fatturato, e nelle quali i Comuni abbiano la maggioranza delle quote o la possibilità di nominare più del 50% dei componenti negli organi di governo e di vigilanza. In questa prima fase, insomma, entreranno le società “figlie” dirette dei Comuni e delle Province, a cui sarà chiesto semplicemente di tenere i conti almeno in pareggio. I primi progetti prevedevano di applicare anche un limite all’indebitamento, che però avrebbe dovuto essere diverso a seconda del settore di attività dell’azienda, perché, per esempio, una società del trasporto pubblico ha strutturalmente livelli di debito diversi da quelli dell’azienda dei rifiuti o dell’acqua: questa variabile, ulteriormente complicata dalla presenza di società multi-settore in cui non è semplice individuare il livello di debito “giusto”, ha per il momento accantonato il secondo parametro, che però potrebbe tornare in Parlamento oppure nelle prossime tappe applicative.

Chi non riuscirà a raggiungere il pareggio di bilancio, dovrà bloccare qualsiasi assunzione (anche a tempo determinato), tagliare i costi operativi e sforbiciare del 30% le indennità di presidente, amministratore delegato e componenti del Cda. A pagare, però, saranno anche gli enti proprietari, che si vedranno peggiorare il proprio obiettivo di Patto di stabilità a causa degli sforamenti delle partecipate: un modo per attivare quei controlli sulle aziende che Comuni e Province avrebbero dovuto garantire in quanto soci di maggioranza, ma che spesso non si sono tradotti in atti concreti.

Tutta da definire, invece, rimane la partita del riordino. La legge di stabilità (si veda anche Il Sole 24 Ore del 25 ottobre) chiede di bloccare le indennità degli amministratori nelle società fuori linea in base all’obbligo della manovra estiva 2010, che dopo molte proroghe chiedeva di dismettere le partecipazioni nei Comuni fino a 30mila abitanti e di tenerne solo una negli enti fra 30mila e 50mila abitanti.

Sanzioni a parte, la sfida è quella del riordino, e la novità è data dalla disponibilità degli amministratori locali ad affrontare la sfida: un tavolo tecnico congiunto fra Comuni e Governo è appena stato avviato, ora tocca passare alle realizzazioni pratiche.


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