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Fondi Ue, per l'Italia strada in salita
Domani il sì dell'Europarlamento: dopo i rilievi di Bruxelles nuovi rischi con la macrocondizionalità

Va in scena domani, con il voto in plenaria dell’Europarlamento a Strasburgo sul bilancio pluriennale 2014- 2020, l’ultimo atto della partita sui fondi Ue per i prossimi sette anni. Il sigillo dell’Aula metterà a disposizione 325 miliardi di fondi strutturali da spartire tra i 28 Paesi Ue. Per l’Italia questo significa una dote da 31,8 miliardi, a cui si sommerà una quota di cofinanziamento nazionale pari a 24 miliardi. La buona notizia dello sblocco di un’impasse durata sette mesi che rinvia la palla nel campo delle capitali per entrare nel vivo della programmazione, è però offuscata da una nube nera all’orizzonte, soprattutto per il nostro Paese: nel testo che approderà sul tavolo dell’Europarlamento è ricomparso il principio della «macrocondizionalità», che prevede il blocco delle risorse per i Paesi fuori rotta sul deficit o in presenza di squilibri macroeconomici. Una misura, introdotta con il pressing della Germania, che potrebbe rappresentare un rischio per l’Italia, soprattutto dopo i rilievi incassati venerdì scorso dalla Commissione Ue sulla legge di Stabilità che hanno reso Roma più vulnerabile.

A raffreddare gli entusiasmi che accompagnano l’iter dei fondi strutturali è l’articolo 21 del “Pacchetto coesione”, rispolverato e approvato dieci giorni fa dal cosiddetto “trilogo”, composto dai rappresentanti di Consiglio, Commissione e Parlamento Ue. Sette pagine fitte che assegnano all’esecutivo europeo il potere di proporre a partire dal 2015 la sospensione di parte dei fondi. La sanzione può scattare se il Consiglio Ue accerta che uno Stato non ha corretto il proprio deficit eccessivo o se adotta due raccomandazioni in seguito a una procedura per squilibri economici. Nel primo caso il congelamento riguarderebbe la metà dei fondi strutturali relativi all’anno finanziario successivo alla pagella, nel secondo il 25 per cento. Se però il Paese non corregge la rotta, la sospensione raddoppia rispettivamente al 100 e al 50% dei fondi previsti. Il blocco non è automatico, ma dovrà essere approvato dai Paesi Ue e sottoposto al parere dell’Europarlamento. Per dissipare la nube alcuni europutati di Pd/S&D e Pdl-Ppe hanno fatto fronte comune, presentando un emendamento che punta ad attenuare l’impatto delle misure. Tra le richieste spicca una condizionalità macroeconomica più sociale, coerente con i target di Lisbona 2020. Dalla loro parte si sono schierati una sessantina di parlamentari italiani, spagnoli e portoghesi. «L’introduzione della macrocondizionalità – sottolinea Erminia Mazzoni (Ppe), membro della commissione sviluppo regionale dell’Europarlamente e tra i promotori dell’emendamento – ha cancellato i risultati più importanti ottenuti finora dal Parlamento.

Considerata la situazione attuale dell’Italia è facile intuire che il nostro Paese rischia di restare fuori dalla prossima agenda. Questo pacchetto fa vincere ancora l’austerità sulla crescita». Le fa eco Francesco De Angelis del gruppo Alleanza progressista di socialisti e democratici: «Nel corso dei negoziati abbiamo raggiunto risultati importanti, come la velocizzazione delle procedure, un accesso più facile ai fondi e un focus sulla qualità della spesa. Questa misura invece è iniqua e andrà a colpire proprio le regioni più deboli e bisognose di un sostegno europeo. Senza contare che le risorse dei fondi strutturali sono le uniche certe e disponibili».

Le possibilità che l’emendamento venga accolto sono però minime, perché l’ok alle modifiche significherebbe un nuovo slittamento del voto e un ritardo nell’erogazione dei fondi. Si dovrebbero avviare le procedure per la seconda lettura, con un nuovo passaggio parlamentare e l’organizzazione di un nuovo dialogo interistituzionale. «I maggiori gruppi, pur con alcune differenze al proprio interno – conclude Mazzoni – preferiscono votare un testo che non convince più piuttosto che far slittare l’avvio della nuova agenda. Un rinvio porterebbe senz’altro delle sfasature, ma ritengo che iniziare tardi sia il danno minore».


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